venerdì 21 dicembre 2012


Recensione di Martin Heidegger, Fenomenologia dell’intuizione e dell’espressione. Teoria della formazione del concetto filosofico (Quodlibet)

mercoledì, dicembre 19, 2012
By Giuliano Zingone (alias Spinoza) - pubblicata sul sito "Phenomenologylab"

a cura di Vincenzo Costa, traduzione di Armando Canzonieri, Macerata, Quodlibet, 2012, pp. 181, euro 24, ISBN 9788874624188

Il lettore italiano possiede indubbiamente una conoscenza indiretta dell’esistenza e dei contenuti salienti delle lezioni heideggeriane friburghesi del semestre estivo 1920 oggetto della recensione (pubblicate nella Martin-Heidegger-Gesamtausgabe, Bd. 59, V. Klostermann, 1993, a cura di C. Strube) grazie ai riferimenti presenti in un denso testo della maturità del filosofo di Meßkirch (“Da un colloquio nell’ascolto del Linguaggio”, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1990). Che Heidegger si decidesse a citare il corso a più di trent’anni di distanza ci assicura retrospettivamente del fatto che con questo ciclo di lezioni- il cui titolo, nella presente traduzione, viene reso correttamente a differenza del lacunoso e assai poco perspicuo Espressione e fenomeno impiegato nel testo sopra ricordato – l’immane sforzo dell’Autore di disarticolazione delle filosofie neo-kantiane del soggetto a lui coeve e all’interno delle quali si era formato – Scuola di Marburgo (Cohen, Natorp ecc.) e Scuola di Friburgo-Baden (Windelband, Rickert ecc.) – avesse raggiunto un punto di non ritorno nella sua operazione di destrutturazione della metafisica occidentale, già ampiamente preparato dai corsi del 1919 (tradotti in italiano nel volume Per la determinazione della filosofia, Guida, Napoli 1993). In questi snodi accademici cruciali, l’ambito della dimensione esperienziale del soggetto trascendentale, con la sua asfittica auto-referenzialità logicistica di derivazione fichtiana ed hegeliana, si rivela infatti al giovane docente inadeguato ad accogliere la portata rivoluzionaria della ‘costituzione’ del soggetto mondanamente centrato nella “vita effettiva”. Heidegger si era formato sì con Rickert e Lask ma già molto precocemente si era cimentato nel compito di trovare, con la dissertazione su Duns Scoto e la successiva lezione di abilitazione sul concetto di tempo, in una personalissima declinazione/riscrittura della rickertiana ‘filosofia dei valori’ ispirata alla diltheyana storicità piena e concretamente esistenziale dello spirito vivente, una via d’uscita trans-logica, metafisica alla staticità del soggetto meramente conoscente, astrattamente teoretico. Da qui, una decisa virata verso, appunto, la “vita effettiva” – faktischen Leben, nel 1919-20 ancora categoria della ‘vita’ ma che diventerà, dapprima, nel corso del 1923, Dasein (“Dasein (faktischen Leben) ist Sein in einer Welt”), successivamente, in quello marburghese dedicato alla Retorica aristotelica, Befindlichkeit, per giungere poi in “Sein und Zeit”, all’interno della definitiva configurazione dell’Esserci, a stabilizzarsi nella Befindlichkeit come ‘situazione emotiva’ e nella Faktizität (‘effettività’ nella traduzione di P. Chiodi) come struttura della Cura – organizzata nella triplicità di ‘mondo circostante’ (Umwelt), ‘mondo comune’ (Mitwelt) e ‘ipseità mondana’ (Selbstwelt). Tale costituzione è, nella sua ‘problematicità’, afferrabile solo in un risveglio dell’ “attenzione” costante all’esistere (pp. 36 e 86), in una “preoccupazione” (Sorge, p. 144 e, nella recensione, coeva, alla Psicologia delle visioni del mondo di K. Jaspers, Bekümmerung) vòlta a rendere insicura la ‘quotidianità’ di ogni singolo esserci; anche se il neo-kantismo si ostina a rimuovere tale carattere sconcertante nelle movenze ammalianti e tranquillizzanti della lotta per i ‘compiti culturali’ (p. 144) e per la strutturazione di un cosmo valoriale assoluto avulso dal ‘tormento cairologico’ della ‘vita’ (ma su quest’ultima dinamica sarebbe necessario approfondire il corso del semestre invernale 1921-22 sulle Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, Guida, Napoli 1990 che prelude alla rivalutazione della tensione messianica del cristianesimo delle origini avviata nel corso del 1920-21 sulla “Fenomenologia della coscienza religiosa”).
Significativamente (ibidem), Heidegger scrive: “Mondo circostante, mondo comune e ipseità mondana non costituiscono un’area dell’essere non determinata sotto qualche aspetto. Ogni realtà riceve il proprio senso originario dalla preoccupazione del sé. Le modalità dell’avere e del rimuovere il mondo circostante sono connesse con la modificazione della preoccupazione del sé. La preoccupazione del sé è una costante cura (Sorge) intorno allo scivolar via dall’origine”.
La categoria di “vita effettiva”, dunque, individua un originario fenomeno – l’esistenza del singolo esserci coinvolto nella contesa tra autenticità ed inautenticità – ed il suo pieno, fenomenologico senso di riferimento nella categoria della “significatività”, laddove con questo termine Heidegger intende – a dispetto del dualismo, patrocinato dal primato del teoretico, sintetizzabile a posteriori, di soggetto e oggetto tipico del neo-kantismo – il modo d’essere in cui, nell’ ‘attuazione’ (pp. 65 sgg.) della vita effettiva, l’esserci fa concretamente, originariamente esperienza del mondo. È doveroso, a questo punto, che si ricordi il concetto di “fare esperienza” come eundo assequi degli scritti heideggeriani degli anni Cinquanta, esemplare maturazione di quel concetto di Ereignis apparso per la prima volta, con la sua violenza primigenia annichilente l’ego cartesiano, nei corsi friburghesi del 1919, in cui la trascendenza dell’esserci scuote l’irrelata totalità ontica fino a spezzarla nella differenza ontologica e a ricomporla, appunto, nel mondo, quel mondo che, per la quotidianità reificata, ‘caduta’ (altro concetto chiave delle lezioni heideggeriane di quegli anni post-bellici) nel “logorarsi della significatività”, lungi dal riconoscerne l’ ‘essere’ nella “mondità” del ‘prendersi-cura-avente-cura’ è divenuto mero oggetto di interesse, occupazione esente da pena, semplice utilizzabile, datità la cui natura pre-teoretica, ‘ambientale’ rimane occlusa nella semplice-presenza dell’oggettualità teoretico-ideale (p. 37 e p. 153). Sempre per esplicita ammissione di Heidegger stesso, si veda a questo proposito la celebre nota a Essere e tempo (Utet, Torino 1978, p.145): “L’autore si permette di render noto che, sin dal corso semestrale invernale 1919-20, ha ripetutamente esposto, nelle sue lezioni accademiche, l’analisi del mondo ambiente e, in generale, l’ “ermeneutica dell’effettività” dell’Esserci” – già elaborato e presentato nel corso del 1919-20 sui Problemi fondamentali della fenomenologia.
Sì, perché, nelle lezioni del 1920 e dintorni, c’è una questione ancor più originaria,che aveva occupato Heidegger già nel quinquennio 1912-1917: lo statuto dell’ ‘oggetto’. Era inevitabile che la ‘riduzione’ husserliana, l’abbandono del naturalismo, la perdita del mondo – inteso come totalità ontica – per ritrovare il mondo come differenza ontologica, esigesse l’individuazione di una sfera trascendentale originaria, dove per ‘trascendentale’ Heidegger, sino alla fine degli anni Venti, intenderà il complesso delle condizioni di possibilità dell’oggettualità in quanto tale. Nella misura in cui l’oggettualità è l’esperienza che ‘si dà’ (es gibt), è ciò che ‘apre’, all’esserci, la possibilità di un’esperienza come Ereignis, come evento che si apre solo nella vita effettiva, nella situazione emotiva corroborata dalla comprensione e dal discorso e ciò solo in un’auto-manifestazione che si organizza autonomamente a livello strutturale e categoriale, emerge che tale rilevamento si rende possibile solo grazie a Dilthey e alle sue categorie interne alla vita; e a Husserl con la sua scoperta, nella sesta “Ricerca Logica”, dell’ ‘intuizione categoriale’ e dell’ “eccedenza” della categoria dell’oggettualità e dell’essere rispetto alla mera intuizione sensibile. Questa cruciale acquisizione Heidegger, nel 1919, la fonderà nel carattere di precedenza ontologica del ‘qualcosa vitale pre-mondano’ (la ‘vita’ è strutturata, il teoretico può avere una struttura non repressiva, la vita non è im-mediatezza categoriale,bensì concetto, ha proprie determinazioni categoriali) e, nel 1920, ossia nel testo in oggetto, gli permetterà di cimentarsi poi con Natorp circa la possibilità di una scienza originaria del pre-teoretico, laddove per Natorp scienza si può dare solo del teoretico, considerata l’inoggettivabilità dell’io. Che cos’è, allora, un oggetto ? Il correlato di una soggettività, ma non di una soggettività rappresentazionale, emozionale o volitiva ‘pura’ che, cartesianamente, dall’alto dell’indubitabilità della propria percezione immanente, si volge poi a costituire l’oggettività mercé quella “matematicità del metodo” così ben analizzata nel § 10 del corso del semestre estivo del 1933 e qui ampliata nel cap. 15, limitandosi a descrivere un cosmo di pure essenze ideali oggettivandole in ontologie regionali e a fare della soggettività storica concreta un mero esemplare rientrante in un “contesto di ordinamento” – su tale categoria, contrapposta al ‘contesto di attuazione’, si vedano le pp.124 sgg. e p.162 del testo – qual è, appunto, una qualsiasi ontologia regionale. L’ oggetto si rivela essere, invece, il correlato di un’intenzionalità intesa non come l’astratto rapporto dell’approccio teoretico soggetto-oggetto bensì come la vivente co-appartenenza, nel vissuto dell’attuosa esperienza ambientale, di “esperienza vivente” e di “qualcosa vitale pre-mondano”,cioè la significatività. L’oggetto è quindi originariamente “significativo”, è l’oggettualità, non l’oggettività determinata dalla soggettività trascendentale – si ricordi l’acquisizione dei corsi friburghesi dei primi anni Trenta: ‘filosofo’ è colui che libera lo sguardo per l’idea, per l’essere e per l’idea suprema, l’idea del Bene, la suprema potenza, superiore allo stesso essere in quanto concedente e accordante essere e verità. Filosofia o, meglio, filosofare non è, quindi, mero esangue sapere cattedratico, complesso definitorio, tecnica speculativa o visione del mondo ma lotta per l’esistenza spirituale di un popolo, quel conseguire la paideìa di cui parla Platone all’inizio del settimo libro della Repubblica.
Di quel fenomeno originario fondamentale – la “vita effettiva” – la fenomenologia, secondo Heidegger, è dunque la scienza in quanto “scienza originaria del pre-teoretico”, per riprendere la definizione presente in Per la determinazione della filosofia, dotata di un rigore tutto suo, il rigore delle ‘cose ultime’, che non è quello derivante dall’ “assicurazione” della Filosofia come scienza rigorosa di Husserl – cui però non va contrapposta la visione del mondo bensì la filosofia scientifica (pp. 15 sgg. e p. 142) – e, in quanto tale, mercé l’inesausto esercizio della “distruzione” (cap. 5 e Appendice, pp. 149 ss.), o “diiudicazione” (cap. 10), fenomenologica applicata ai reperti linguistico-proposizionali della quotidianità, autentica attuazione dell’ “atteggiamento fenomenologico fondamentale” (p. 36). Tale ‘atteggiamento’ è quindi da perseguirsi indefinitamente attraverso gradi sempre più originari di ‘indicazione formale’ (p. 74 e altri luoghi ma, per una piena intelligibilità, si veda “Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele”, cit., pp. 67 ss.), di approssimazioni orientate (p. 36) sempre più vicine all’origine nella forma dell’ ‘interrogazione infinita’ con l’obiettivo di destituire di credibilità la presunta auto-sussistenza, l’autonomizzazione dell’asserzione (in questo testo intesa come “espressione”) dal nesso ‘comprensione/interpretazione’ (vedi anche i §§ 33 e 44 di Sein und Zeit) al fine di giungere alle “cose stesse”. E quelle “cose stesse” si riveleranno essere allora, come volevasi dimostrare, l’”intuizione” vivente del proprio esserci effettivo, la comprensione originaria, l’ “intuizione ermeneutica” del radicamento dell’apparato espressivo nella concretezza fattizia della dialettica esistenziale cosicché risulti chiaro che ogni ‘espressione’ esibisce sempre e necessariamente una pre-delineazione, una preliminare articolazione del senso nascente da una pre-concezione (Vorgriff), da una cornice ‘progettuale’, a partire dalla quale l’esserci organizza il proprio mondo, originata da una “situazione” (pp. 34-35) esistenziale ben definita, di accettazione della vita fattizia e della preoccupazione del sé oppure di rimozione/nascondimento della stessa dietro il velo della teoria degli “oggetti culturali”, nella teoria dei “compiti della cultura” come “atteggiamento” (Einstellung, pp.119 ss.) idolatrico nei confronti delle forme oggettivate, ‘cadute’ dell’attuosità vivente dello spirito nelle datità non-originarie del mondo circostante e del mondo comune. È infatti solo analizzando i sei campi semantici del termine ‘storia’ (capp. 6 ss.) – (1) storia come scienza, come obiettivazione teoretica; 2) storia come totalità ideale del passato, come oggettualità solamente pensata; 3) storia come tradizione, ossia come apparato di significatività proprie del mondo circostante e del mondo comune; 4) storia come ammaestramento di vita o di politica; 5) storia come passato concretamente esistenziale di un individuo; 6) storia come accadere evenemenziale della vita effettiva) – che Heidegger avverte che esclusivamente il quinto, oltre ad esprimere un carattere di pre-delineazione congruo con gli imperativi di questa ‘analitica esistenziale’ ‘in fieri’ (cap. 5), è in grado di rispettare, almeno parzialmente, il criterio di ‘originarietà dell’attuazione’. E ciò avviene solo nella misura in cui è storicamente rilevante solo ciò che il singolo esserci attua, ogni volta rinnovandosi,sotto l’imperativo dell’ipseità mondana (cap.10), nella misura in cui l’importo esistenziale effettivo è presente come passato di una persona che viene conservato e mantenuto nella vivente irrorazione del presente tornando con ciò a reintegrarsi nell’attuosità della dinamica esistenziale intesa come ‘senso concreto dell’attuazione storica’ prefigurante il dinamismo della triplicità ‘estatica’ di Sein und Zeit, come unità di passato, presente e futuro nella vicenda esistenziale del singolo esserci all’interno del ‘progetto’ del “mondo”, movimento splendidamente prefigurato nella recensione, coeva alle lezioni del 1920, alla Psicologia delle visioni del mondo di K. Jaspers (ora in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 457-463). È infatti solo considerando sotto la vivente conduzione attuativa della “distruzione fenomenologica” i reperti linguistici della principale espressione della sterilizzazione dell’ ‘oggetto storia’ nel campo dell’interesse filosofico, vale a dire la filosofia dei valori, che possiamo renderci conto di come i singoli eventi perdano ‘effettività’ e ‘significatività’ per scadere a pretesti per il reperimento in essi stessi di tracce di questa epifania dell’ideale, sprovvisti di una propria identità ed intelligibilità, bisognosi di assumere certificati d’identità dai valori. I singoli eventi psicologici e storici – in Rickert, solo quelli storici – materializzano, infatti, i valori sotto forma di ‘oggetti culturali’. Ma anche qui la singolarità dell’evento storico, in conformità al carattere idiografico, individualizzante proprio delle scienze dello spirito secondo Windelband, è meramente, per Heidegger, il luogo della manifestazione di un ordine sovra-temporale (anche Simmel e Scheler rientrano nella critica!), dove l’apparizione dei valori del dover-essere imprime una torsione verso l’alto al divenire biologico consentendo l’emergenza di valori strutturanti una presunta amorfa irrelatezza empirica. Quest’ultima, a sua volta, dovrebbe sostenere oggettualità ideali in grado di strutturare a priori la vita secondo un ordine del “dover-essere” affondante le proprie radici nel primato fichtiano-lotzeano della ragion pratica e nella distinzione brentaniana, ripresa e sviluppata da Windelband e dallo stesso Rickert nella terza edizione de L’oggetto della conoscenza, della distinzione di ‘giudizio’ e ‘valutazione’, ipostatizzando un ordine valoriale – logico, etico, estetico ecc. – sovra-storico in grado di informare platonicamente quella che, a torto, si considera come l’irrelata molteplicità empirica fluente (pp. 27-29) e che è, invece, concreta “vita effettiva” nella drammaticità della propria dialettica esistenziale.
Si tratta, cioè, in sostanza, nel 1920, per Heidegger, di distruggere le contemporanee espressioni supreme della filosofia della vita non per restare all’interno dell’orizzonte della stessa ma per rifondarla superandola hegelianamente. Da una parte, la componente rappresentata dalle scuole di Marburgo e Friburgo con la significativa aggiunta – a differenza del 1919! – di Simmel e Husserl, interessata a stabilire un piano meta-storico di riferimento anti-storicistico alla filosofia dei valori. Dall’altra parte, la componente più attenta alle dinamiche della vita psicologica ma ugualmente tesa a togliere centralità alla vita effettiva del singolo esserci ipostatizzando al suo posto una soggettività assoluta che, mercé il metodo della “ricostruzione”, recuperi hegelianamente all’attuosità del soggetto le proprie oggettivazioni concludendo da ultimo il proprio itinerario fenomenologico in un’astratta soggettività assoluta che, quale mera correlatività, ponga se stessa ed il mondo (Natorp), oppure, nel caso di Dilthey, pur intravedendo quest’ultimo il punto di partenza nell’auto-strutturazione della ‘vita’, introducendo dei meccanismi di assicurazione e di stabilizzazione in grado di tutelare l’individuo dall’incertezza. ma recuperando, al contempo, il momento regressivo della ‘costituzione’ (pp. 138, 141, 164-5). La ‘vita’, infatti, per Dilthey – intesa come tensione pulsionale ed emozionale nei confronti del milieu che fornisce stimoli e riceve modificazioni volitive guidate dal valore e dallo scopo-, mette in funzione operazioni logico-formali, ancorché inconsciamente e tacitamente, di unificazione, collegamento e generalizzazione subordinate al supremo meccanismo regolatore/selettore della vita psichica che è la “connessione acquisita”, dispositivo che consente la stabilizzazione della vita e la sua prevalenza sull’ambiente, soprattutto come ‘spirito oggettivo’, come generalizzazione d’esperienza, secondo Heidegger però estraniante e reificante, in grado di superare quell’ “accorgersi oscuro e violento”, quel tormento dell’ ‘attesa’ che lo stesso Dilthey, nei Contributi allo studio dell’individualità, credeva di aver definitivamente esorcizzato e superato.

Indice
Introduzione – Lo stato del problema della filosofia
Prima parte – Per la distruzione del problema dell’a priori
Seconda parte – Sulla distruzione del problema del vissuto
Prima sezione – La trattazione distruttiva della posizione di Natorp
Seconda sezione – La considerazione distrutiva della posizione di Dilthey
Appendici
Nota del curatore dell’edizione tedesca
Postfazione del curatore dell’edizione italiana
Glossario


(per gentile concessione del sito “Recensioni Filosofiche”)

 

sabato 12 maggio 2012

Recensione a: "Che cos'è la verità?" di Martin Heidegger, Marinotti 2011



 
 
 
Heidegger, Martin, Che cos'è la verità?
(Edizione italiana a cura di Carlo Götz), Milano, Christian Marinotti Edizioni, 2011, pp. 331, euro 30, ISBN 978-88-8273-124-3
 
 
Recensione di Giuliano Zingone - 27/02/2012
 
Il libro che qui presentiamo raccoglie i corsi universitari tenuti da Heidegger nel 1933 (Die Grundfrage der Philosophie) e nel 1933-1934 (Vom Wesen der Wahrheit), vale a dire contestualmente al periodo in cui il filosofo ricoprì la carica di rettore dell'Università di Friburgo.
Pubblicati nella Gesamtausgabe (vol. 36/37) con il titolo Sein und Wahrheit, entrambi i testi si caratterizzano, da una parte, per lo stile estremamente contratto, quasi stenografico, di appunti - tratto sicuramente dovuto all'eccezionale carico di lavoro che Heidegger
dovette sopportare a causa del suo nuovo impegno accademico e che non gli permise un'adeguata elaborazione organica del materiale qui presentato-, dall'altra, per i numerosi inserti polemici legati all'attualità politica. In tal senso, ad esempio per il corso del 1933/1934 che gli editori tedeschi ci propongono attraverso la pubblicazione degli appunti di uno degli uditori heideggeriani, W. Hallwachs - intitolato, come quello del 1931/1932, Vom Wesen der Wahrheit. Quest'ultimo, tradotto in italiano da Franco Volpi per Adelphi con il titolo L'essenza della verità-, andrebbe tenuto costantemente presente per una piena intelligibilità del successivo.
L'idea della filosofia, che Heidegger sviluppa nei primissimi anni Trenta e che culmina nei due corsi universitari qui tradotti, oltre a costituire, da una parte, il coronamento della ricerca -- già ampiamente approfondita con il riconoscimento della centralità della triplicità estatico-orizzontale della 'temporalità dell'essere'(Temporalität) rispetto alla 'temporalità dell'esser-ci' (Zeitlichkeit) affermata nel corso marburghese I problemi fondamentali della fenomenologia (1927) - avviata con Essere e tempo sul 'senso dell'essere' e perfezionatasi nel frattempo nella questione della 'verità dell'essere' grazie allo scritto Dell'essenza della verità (1930, specialmente nel passaggio dal § 5 al § 6 (incluso) dello stesso, dove Heidegger retrospettivamente individuerà il primo 'balzo' nella Kehre, nell' Ereignis, introducente la categoria strategica di mistero quale "autentica non-essenza della verità"), rappresenta un'incendiaria dichiarazione di guerra, dai toni marcatamente nietzscheani, nei confronti di un esangue sapere cattedratico e di una nozione di lotta politico/spirituale - come nel caso dell'allocuzione di Kolbenheyer ferocemente stigmatizzata da Heidegger durante il corso - che ha abbandonato il proprio radicamento nella vita e nella lotta di quel popolo che dell'originaria interrogazione greca sull'essere deve essere il rinnovatore, pena la propria definitiva disgregazione e l'emarginazione definitiva della questione della metafisica. Il popolo tedesco, sì caldamente invocato in queste pagine, deve poter tornare, per Heidegger, proprio per la sua organica cooriginarietà linguistica e concettuale con il passato greco - quel passato mai realmente passato che torna costantemente a colpire l'uomo, con la potenza e la violenza di un'intimazione primigenia, nel momento in cui quest'ultimo viene messo di fronte alla scelta dell'esistenza autentica -, ad ascoltare la lontana ingiunzione dell' Inizio, la fondante voce dell'Essere palesatasi originariamente presso i Greci e presto spentasi sotto l'incalzare di una nuova concezione della verità fondata sul primato della 'dottrina delle idee' e del soggetto logocentrico.
Ed effettivamente, il termine ricorrente, strategico, in entrambi i corsi è : 'lotta' (Auseinandersetzung), qui tradotto con "diremzione scismatica", come conflitto radicale e senza quartiere che segue ad una preliminare "decisione scismatica" (Entscheidung) pro o contro una determinata concezione dell'essere e della verità.
Nel primo corso, infatti - vòlto ad una pugnace disamina di Hegel quale culmine della metafisica occidentale (più tardi questo ruolo sarà di Nietzsche) già ampiamente analizzato da Heidegger in molteplici occasioni a partire da Essere e tempo fino al corso del 1930/31 sulla Fenomenologia dello spirito - sono prese in considerazione le due componenti fondamentali - cristianesimo e matematicità - che presiedono, appunto, all'affermazione della metafisica e che, proprio per ciò, vanno destituite di fondamento mediante una rigorosa lotta culturale.
Platone con la sua dottrina meta-sensibile delle idee - che costituirà più tardi il paradigma cristiano della svalutazione del mondo -, Cartesio (e la sua filiazione leibniziano-wollfiano-baumgarteniana guidata dal principio logicistico dell'essere come possibile, della quidditas come pensabile non-contraddittorio) con il primato 'matematico' della consapevolezza, del sapere di un ego puntuale ed auto-referenziale scisso dal contatto fondante con l'esperienza, aprono la strada alla loro sintesi nel pensiero, appunto, dello Hegel della Scienza della Logica, fondato sullo Spirito assoluto che riassorbe, neutralizzandone la natura oggettiva di potenze, gli antagonismi e la lotta nella propria identità totalistica dopo averli attraversati.
Così, il carattere effettivo, inaggirabile, inscritto nella natura stessa delle cose, del contrasto quale suprema legge d'essere è destinato progressivamente ad estenuarsi nel mero contrasto concettuale e, da ultimo, nell'annullamento stesso dell'antagonismo e nel primato di un'ovvietà non problematica veicolata dalla concezione della 'verità come correttezza' contrapposta alla 'verità come disascosità' (alétheia, s-velatezza,s-velatività). La prima è stata sempre spacciata - a partire da Platone e, per certi versi, Aristotele - per quella originaria, sicché abbiamo, da una parte, un soggetto che determina, attraverso le categorie della metafisica occidentale operanti nel luogo deputato all'accertamento della verità, vale a dire la proposizione, i caratteri e la natura dell'oggetto. La seconda, dopo l'affioramento nel pensiero dei presocratici - in particolare, in Eraclito e Parmenide - come physis (aprente potenza originaria, spalancarsi primigenio di un ambito, 'schiudentesi imporsi' tendente alla stabilità ed alla presenza come consistenza nei limiti delle possibilità essenzialmente proprie di ciascun essente,'caos' in senso esiodeo), quindi, come dis-ascosità, è stata occultata pur essendo la nozione originaria di verità, cosicché l'uomo greco progressivamente perde di vista la consapevolezza, propria di un Eschilo o di un Sofocle, che a dominare la realtà non è l'individuo - categorie come questa, così come quella di 'libera personalità', dice Heidegger, sono estranee alla mentalità greca - bensì la Potenza del 'predominante', della physis.
Ed è proprio la physis, questa originaria potenza, costituente e disponente, che giunge addirittura a scindersi, quindi a lottare con se stessa, a porre la lotta addirittura nel proprio cuore per poter arrivare a comunicare, come destino, con l'uomo ingiungendogli di collaborare all'allestimento di un mondo inteso come 'dimora dell'Essere', ad avere la centralità nella serrata analisi del frammento 53 di Eraclito - quello sul pòlemos come 'padre' e 'dominatore' di tutte le cose - che occupa la parte iniziale del corso del 1933/34 e che lo differenzia costitutivamente dall'omologo del 1931/32, vòlto esclusivamente all'analisi della platonica 'allegoria della caverna'.
La physis - cui l'uso linguistico e concettuale post-aristotelico, a partire dalla romanitas fino alle articolate elaborazioni giudaico-cristiane del Medioevo, ha sovrapposto i caratteri della mera 'natura' fisica, impoverendone fatalmente l'inaggirabile spessore ontologico-fondamentale - è, essenzialmente, in questa serrata analisi heideggeriana, accadimento della disascosità, come edèixe ('mostrare') e come èpoìese ('ad-fermare' consolidante come ulteriore determinatezza dello 'stagliare' come 'messa-in-opera-di-un-mondo'), auto-istituzione della potenza originariamente generante come 'dimensione' intrascendibile della possibilità stessa della manifestazione di qualsivoglia fenomeno, di qualsivoglia essente, sia esso assente o presente, così come - a maggior ragione- della traduzione linguistica dei fenomeni nelle proposizioni - veri e propri prodotti 'derivati' (si veda il § 33 di Essere e tempo) dell' interpretazione quale originario raccoglimento silente nella strapotente corrente d'essere che, come 'lingua madre' (§ 5), come lògos (inteso come 'posare-portar fuori-raccogliente per custodire l'aperto così inaugurato come unità dei reciprocamente contrastanti' nel senso di Introduzione alla metafisica) si pone , ma solo come docile presagio, nei dintorni del soffio vivificante ed aprente della sovrumana quiete del 'Niente nientificante', all'ombra della 'voce afona dell'essere' quale scaturigine 'donante' del senso, quale senso che si dà, quale Er-eignis.
Se volessimo usare ancora il linguaggio di Introduzione alla metafisica (1935), questa Potenza originaria sarebbe il tò deinòn che - come dìke, come giustizia, ordine (còsmos), originaria articolazione di un destino che si fa mondo istituendo la polarità oppositiva delle regioni dei divini e dei mortali, del cielo e della terra - soggioga e guida il tò deinòtaton, il 'più inquietante', cioé l'uomo, espropriandolo della sua pretesa autosufficienza e trasformandolo nell'instancabile 'guardiano' del consolidamento del mondo così dischiuso in un mondo dello spirito mercè la téchne, che altro non é che il perfezionamento creativo di quell'essenza della cosa - l'idea, l'essere - che previamente ci investe ogniqualvolta ap-prendiamo qualcosa in un anticipante 'scorgere' (er-blicken).
Il termine greco téchne, infatti, non è assimilabile alla nostra parola 'tecnica' né esprime un'idea di sapere come conoscenza meramente teorica, bensì significa l' 'intendersene di qualcosa', la conclamata capacità di mettere-in-opera l'attitudine di una cosa a realizzarsi seguendone l'idea , la preliminare configurazione della sua essenza, della sua 'possibilità' oggettiva. In questo senso, la téchne implica un profondo riguardo verso la natura specifica della cosa affrontata, tant'è che i Greci usano anche la locuzione téchne epimèleia per indicare l'accorto 'prendersi cura' (M. Heidegger, Nietzsche, Milano 1995, p.166).
La filosofia diventa così eminente lotta per la vita o per la morte spirituale, se è vero che lo spirito - lungi dal potersi caratterizzare come intelligenza tecnica subalterna alla manipolazione tecnocentrica e/o statocentrica o come mero acume, secondo le profetiche parole del discorso di Rettorato - e non potendo mai essere dato come qualcosa di definito una volta per tutte (come accade invece per l'animale) è solo e soltanto quell'incoercibile volontà di suscitare un mondo sulla base dei suggerimenti dell'essere, sulla base di una fondante 'apertura' alle potenze originarie dell'esistenza ed adempie questo compito esclusivamente ingaggiando un inesausto combattimento con la velatezza nella duplicità delle sue articolazioni, sia essa la velatezza sovrana e mai trascendibile della physis adombrata da Eraclito nel fr. 123 (Physis kryptesthai philei), sia essa la velatezza intesa come quell' 'apparenza' (Schein) - connaturata all'insorgere della verità come 'apparire' (Erscheinung), come venire alla presenza uscendo dal velamento, che Heidegger individua come l'autentico senso greco della verità - che Parmenide, nel suo poema filosofico, invita a tenere costantemente presente, insieme con la minaccia del nulla, come la via dell'errore cui il filosofo è costantemente esposto nel corso della sua lotta. Così la verità, come tensione all'acquisizione di un mondo inteso come stabile permanere in sé di una struttura, come messa-in-opera, dettata dall'essere, di qualcosa nella totalità delle sue determinazioni essenziali, ossia delle sue possibilità autentiche, è essenzialmente conquista e lotta dell'uomo contro la non-verità, contro l'incombente e mai trascendibile minaccia dell'occultamento.
Il culmine di questa lotta - e con ciò entriamo nel cuore del corso del 1933/34, anche se già da tempo, con la nostra analisi, stiamo operando nell'ambito delle problematiche fondamentali dello stesso - viene raggiunto da Platone nella celebre 'allegoria della caverna' contenuta nel Libro VII della Repubblica (514 a - 517 a 6): in essa, attraverso quattro stadi, ha luogo il tormentato processo di elevazione di un prigioniero - simbolo dell'uomo deietto della quotidianità media - dall'originaria condizione di dipendenza dalle ombre nella caverna alla contemplazione delle idee quale luogo dell'essere sino all'intellezione finale dell'idea suprema, l'idea del bene (Rep., VI, 506-511 e VII, 517 a-c), eco dell'antica potenza generante della physis ma ancora suprema potenza s-velante, concedente/accordante verità ed essere, anticipazione della Lichtung (' radura', 'contrada').
Pur avendo sempre a che fare con svelatezze parziali - anche l'ombra è pur sempre qualcosa di svelato, qualcosa che si mostra ma non come dovrebbe, proprio in virtù della dialettica oggettiva di quella dòxa che, lungi dal significare mera 'opinione', ospita invece - nella successiva e conclusiva analisi heideggeriana del Teeteto -, come fenomeno dell' Ansicht ('veduta'), la complessa e parmenicida dinamica di ri-conoscimento/mis-conoscimento, di presentazione/ri-presentazione immanente all'apparente enigma, generato dall'essere stesso nello scontro delle sue componenti oggettive e soggettive, della 'biforcazione' conseguente al fenomeno della pseudés dòxa - il prigioniero, lungo il suo itinerario di emancipazione, si rende conto solo a partire dal terzo stadio che il supremo dolore derivante dalla lancinante sofferenza per l'incontro con la luce del sole altro non è che il prezzo da pagare per la visione delle idee, che nell'allegoria è rappresentata dalla potenza illuminante e disvelante della luce, metafora della conoscenza autentica del vero essere delle cose attingibile solo da parte di un preventivo 'apprendere' (come Ver-nehmen e Vor-nehmen, come accoglimento ed elaborazione progettuale) quello 'sguardo' che preliminarmente l'Essere ci rivolge e al quale dobbiamo conformarci attraverso un ri-orientamento radicale della nostra esistenza in direzione delle nostre più proprie possibilità - paideìa (Rep., 514 a 1 sgg.) intesa come 'cura' (Sorge, epiméleia) del Sé in senso foucaultiano e quindi antagonisticamente a qualsivoglia torsione teoreticistica -, acquisizione che poi deve necessariamente spingere colui che si è liberato a tornare, da liberatore e nel rischio della morte, nelle profondità della caverna per ottenere, di nuovo, quell' 'esperienza fondamentale' (eundo assequi), evocata poi nella Lettera VII (340b-344e), dell'accadere della disascosità nel genuino dialogo filosofico, nella genuina interrogazione che sarà poi attivata nel Teeteto - luogo della giustificazione del non-essere e della sua cooriginarietà antagonistica con l'essere - con coloro che vogliono 'udire' (Er-hören) e 'scorgere' (Er-blicken) autenticamente.
 
 
 
Indice
 
Nota all'edizione italiana
 
Semestre estivo 1933
 
Avviamento: L'interroganza di fondo della filosofia e il fondale generarsi della nostra genitura
 
Parte principale: Interroganza di fondo e metafisica. Preparazione di una diremzione della posizione di Hegel
 
Capitolo primo: Configurazione, trasformazione i improntamento in senso cristiano della metafisica tramandata
 
Capitolo secondo: Il sistema della metafisica del tempo nuovo e la prima delle sue <due> principali determinazioni di fondo: la matematicità
 
Capitolo terzo: Determinazione cristiana e pensiero metodico-matematico della fondazione nei sistemi metafisici del tempo nuovo
 
Capitolo quarto: Hegel. Il compimento della metafisica in quanto teo-logica
 
Conclusione
 
Semestre invernale 1933/34
 
Avviamento: Capziosità e inaggirabilità dell'interroganza di stanziazione
 
Parte prima: Verità e libertà.Un'interpretazione dell'allegoria della caverna nella "Repubblica" di Platone
 
Capitolo primo: I quattro stadi del generarsi della verità
 
Capitolo secondo: L'idea del bene e la disascosità
 
Capitolo terzo: L'interoganza dello stanziarsi della disverità
 
Parte seconda: Un'interpretazione del "Teeteto" di Platone in vista dell'interroganza dello stanziarsi della disverità
 
Capitolo primo: Considerazioni preliminari sul concetto greco di conoscenza
 
Capitolo secondo: Le risposte di Teeteto all'interroganza dello stanziarsi del sapere e la refutazione di queste risposte
 
Capitolo terzo: L'interroganza dell'attendibilità della pseudés dòxa
 
Appendice I: Appunti e schizzi per le lezioni del semestre estivo 1933
 
Appendice II: Appunti e schizzi per le lezioni del semestre invernale 1933/34
 
Postfazione del curatore dell'edizione tedesca

(Fonte: "ReF - Recensioni Filosofiche / ISSN 1826-4654")

sabato 13 agosto 2011

Cinquant'anni fa, il Muro di Berlino.

Ernst Bloch vi vide una fatale interruzione dell'intenzionalità utopico-concreta e si sovvenne di analoghi argini anti-libertari ed anti-liberali edificati nei lontani anni Venti-Trenta dai fascismi europei sulle macerie di democrazie svuotate. Decise, allora (1962), di riprendere in mano Eredità del nostro tempo (1935) e di non cambiare nulla alla propria analisi di quella contemporanea 'diga feudale', atemporale e aprocessuale, retaggio di una modalità di appropriazione del reale rigorosamente contemplativa basata sulla figura hegeliana del 'padrone' consumatore indifferente all'intervento sull'oggetto rappresentata -a suo modo di vedere- dalla fenomenologia, in primis da quella husserliana e, successivamente, da quella di Scheler e di Heidegger.
Bloch -come tantissimi altri allievi di Lipps, da Pfander a Daubert a Reinach ecc. autori della famosa 'invasione monacense di Gottinga'- era stato affascinato dalle Ricerche Logiche, dalla loro scoperta dell'intenzionalità costitutiva, dall'ontologia materiale, dall'analisi del significato prescientifico del linguaggio, dal rigore delle analisi del 'senso oggettuale' come 'oggettualità intenzionale';vi vedeva, insomma, i prodromi di una teoria dell'oggetto funzionale ad un'ontologia concreta -poi, subito dopo l'Ottobre rosso, materialistica. Poi, come d'incanto, ad ampliare il fascino e le potenzialità 'rivoluzionarie' della teoresi husserliana, erano sopraggiunte (1904-5) le lezioni gottinghesi sul tempo: l' "Ora" impenetrabile, autentica soggettività in atto, 'presente vivente' in-oggettivabile, da cui sgorgava la catena, strutturante l'unità e l'identità dell'oggetto, delle ritenzioni e delle delle protensioni intese alla stregua di 'solidarietà teleologiche', si gonfiava, in Bloch, sino a diventare l' "oscuro attimo vissuto", la sorgente costantemente pulsante dell'intenzionalità utopica racchiusa nell'implicito 'non-ancora-conscio' come futura prassi aperta sia al successo che al fallimento, e perciò comodamente rintracciabile, senza tema di contraddizione, nelle effigi dureriane della "Melancholia" e del "San Girolamo nello studio"; quel Durer del "Cavaliere, la morte e il diavolo" che Husserl pochi mesi dopo, nelle vibranti pagine del diario del 25 settembre 1906, avrebbe innalzato a cifra della propria inesausta battaglia, esistenziale e teoretica, contro l'ottusa prepotenza della pre-datità naturalistico-obiettivistica. L' 'urto iniziale dell' "ora" ' -per usare la terminologia di quell' Experimentum Mundi in corso di elaborazione già dai primissimi anni Venti con lo Zehlendorfer Manuskript!- doveva cioè necessariamente fuoriuscire dall'immediatezza a- e pre-teoretica dell'Erlebnis per concretizzarsi, allora, in Bloch, in nuove strutture 'predicative' dell'indeterminato substrato del 'non-ancora-conscio', in 'figure' aperte, dinamiche, forme figurative di 'prova',forme aperte, in misura tale da trasformare le teorie meinongiano/husserliane dell' "oggetto" (comunque benignamente accolte quale punto di partenza,sia sotto il profilo epistemologico che sotto quello ontologico) in rilevamenti fenomenologici di una "cosa stessa ancora 'aperta'"(Experimentum Mundi,p.178,190-199,(ivi, §§ 17-18, da accostare alle coeve pagine di Eredità del nostro tempo su "Il nucleo fondamentale della fenomenologia") miranti ad 'animare' dialetticamente/materialisticamente, come "materialità telico-logica delle categorie" (Experimentum Mundi), gli imprescindibili fondamenti ontologici derivanti dalle (idealisticamente limitate, per Bloch) teorie meinongiane  ed husserliane dell' 'oggetto', in maniera straordinariamente affine, comunque oggettivamente convergente al di là delle rispettive consapevolezze soggettive, con la coeva teorizzazione husserliana dell' 'indeterninatezza infinitamente determinabile' di qualsivoglia oggettualità, ideale o reale, con la piena strutturalità dell'orizzonte,in atto già nel 1913 con Ideen I e poi definitivamente sancita dapprima nella teoria dell' 'intenzionalità d'orizzonte' (l'equivalente leibniziano delle 'piccole percezioni') in Erste Philosophie (Zweiter Teil: Theorie der Phänomenologischen Reduktion), successivamente nell'apoteosi delle Cartesianische Meditationen  e di Formale und transzendentale Logik, sempre sotto l'illuminata egida del primato leibniziano - quel Leibniz che è nume anche e massimamente blochiano!- della 'possibilità' (l' "io sono leibniziano!" delle lettere del '17 e del '27 a Mahnke!),della trasformabilità delle 'piccole percezioni', del 'non-ancora-conscio' in attualità soggettivante,trasformatrice, rivoluzionaria, primato fondato -come Deleuze ha fatto magnificamente notare- sulle categorie di 'piega','dis-piegamento',ecc. - così come è da dire che Leibniz instaura, prima in Dilthey, poi in Husserl ed in Bloch, una nuova, tras-valutante, post-cartesiana nozione di soggettività  incardinata nelle molteplici pieghe delle dinamiche inter-istintuali configuranti un'inedita dialettica 'vita-forme','passività-attività' che è la cifra ermeneutica essenziale della fase matura di elaborazione dei sistemi dei tre grandi filosofi citati più sopra (si vedano almeno, a mo' di calzante riassunto, le acute notazioni di Bianca Maria D'Ippolito in Il sogno del filosofo. Su Dilthey e Husserl, Morano, Napoli 1987, capp. IV-V). Così, anche in Husserl, il 'telos', la spinta e-staticamente oggettiva verso il superamento dell'immediatezza del noema primordiale in quanto substrato, grazie ad una teoria fenomenologica dell'oggetto incardinata nella riduzione fenomenologica si 'apriva', nello stesso torno di anni, nell'infinità, orizzontale e verticale, degli 'orizzonti' infinitamente aperti da una costitutività soggettiva, noetico-trascendentale poggiante necessariamente sulla 'filosofia come scienza rigorosa', sulla filosofia come visione idetica, come astrazione ideante, come 'contemplazione' delle strutture primordiali della totalità dell'essente, come ontologia fenomenologica universale contrapposta alla suprema ontologia razionalistica di Spinoza. Così, anche Husserl diventava 'utopico-concreto', fondando d'un sol colpo soggettività costitutiva e imprescindibile auto-datità, auto-manifestatività dell'oggetto -si veda la stoica battaglia su due fronti in atto in Filosofia come scienza rigorosa ( "Logos", Bd.I, 1911) sia contro lo psicologismo naturalistico-obiettivistico sia contro lo storicismo invertebrato: in questo testo, a torto - a partire dal Dilthey del Plan der Fortsetzung zum Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften -considerato la roccaforte dell' "essenzialismo astorico" husserliano, culmina invece l'atto inaugurale dell' intenzionalità d'orizzonte aperto dai Problemi fondamentali della fenomenologia (1910-11) e dalla sua ricca pre-delineazione della teoria delle "implicazioni intenzionali". L'ontologia fenomenologica universale  edificata sulla base della socialità trascendentale che ci viene proposta dalle Meditazioni Cartesiane è già schizzata, quindi, nel testo apparso su "Logos" e nel coevo carteggio con Dilthey (si veda, in particolare, la lettera del 5/6 luglio 1911), laddove si parla - anticipando addirittura la Krisis e prevenendo anzitempo le ingiustificate critiche blochiane di Experimentum Mundi- di un'ontologia in divenire,di categorie aperte alla dinamicità propria del reale, di scienza (leibnizianamente) infinita quanto infinita ed ineasuribile è l'idea, "Dio nella storia" (Ideen, II, Beil. V).
Ma l' Idea della fenomenologia (1907) -contemporaneamente all'insorgenza, rigorosamente coerente con quanto accennato sopra,del pensiero del 'non-ancora-conscio' in Bloch- era poi piovuta a raffreddare i caldi animi di quei giovani: in essa, a loro modo di vedere, si edificava una soggettività 'trascendentale', astratta, lontana dalla concretezza dell'esistere ed interessata ad un puro approccio teoretico alle immacolate 'essenze' senza storia e senza spessore culminante nel primo volume delle Idee - ma quel che colpisce è che sia Bloch -a partire già dalla prima edizione (1918) di Spirito dell'Utopia fino addirittura alle frementi pagine anti-husserliane del tardissimo Experimentum Mundi- che l'Adorno laureatosi su Husserl nel '24 (il 1924 dei Kaizo-Artikel e dell' Introduzione all'etica - preceduti dall'inserimento, già nei Lineamenti di etica formale, della categoria del 'miglior mondo possibile' intesa come accertamento preventivo dell'orizzonte della praticabilità etico-politica ad opera della scienza,per orientare fattibilmente poi la decisione nell'autoresponsabilità, oggettivamente centrale anche in Principio Speranza, pp.289 sgg.-,quel tempestoso quinquennio post-bellico che Husserl aveva inaugurato con la (rivoluzionaria in senso proprio) lettera a Metzger (contestuale alla polemica con Keyserling) e che aveva concluso, mercé anche lo sforzo teorico friburghese di Gemeingeist I e II, con la teorizzazione, radicata in larga parte già nel 'suo' Fichte del 1917, di una 'metafisica' teleologicamente orientata basata sul primato dell'etica,della 'vocazione' e della 'liebende Gemeinschaft")  e autore della ventennale Metacritica della gnoseologia, nonostante avessero sicuramente letto la Krisis, il secondo volume delle Idee (con la sua apoteosi dell'intenzionalità corporeo-istintuale e con i drammatici paragrafi 22-29 -tutti leibniziani, tutti ispirati da quella rivoluzionaria teoria leibniziana delle "piccole percezioni" che tanto peso ebbe anche su Bloch nella fondazione/elaborazione del 'non-ancora-conscio'- sulla "possibilità essenziale",per l'io, di un sonno permanente) e di Filosofia prima, non intesero modificare alcunchè del loro giudizio su Husserl, né allora né dopo.

Tutto ciò andrebbe adeguatamente approfondito -e se ne avrò il tempo, mi cimenterò io stesso, tanta è la posta in gioco. Resta il fatto che la teorizzazione blochiana nel suo complesso -da Spirito dell'Utopia a Principio Speranza a Experimentum Mundi- affonda radici incrollabili in Brentano, Meinong -quel Meinong che tanto ferocemente Husserl aveva combattuto per questioni di 'primogenitura' di 'teoria dell'oggetto'- e, soprattutto, Husserl (si vedano, oltre alle illuminanti pagine di W.Hudson nel suo The Marxist Philosophy of Ernst Bloch, London: Macmillan and New York: St Martin's Press, 1982, anche, di Laura Boella, Trame della speranza, Jaca book, Milano 1987 e, di Sandro Mancini, lo splendido L'orizzonte del senso. Verità e mondo in Bloch, Merleau-Ponty, Paci, Mimesis, Milano, 2005). L'in-tenzionalità perennemente insoddisfatta, alla ricerca di una sintesi post-hegeliana e post-kantiana di 'soggetto-oggetto', veicolata in primis da un'intenzionalità corporeo-istintuale (in cui husserlianamente -e blochianamente: si veda Principio Speranza,seconda parte, "Fondazione-Coscienza anticipante"- si radica lo stesso 'interesse' teoretico)che sfocia in una teoresi integrale/"fantasia oggettiva"(Bloch) teleologicamente orientata dall'infinità delle idee,da questo "Dio nella storia"(Idee II, App.V) -'storia naturale' e storia umana: si vedano i manoscritti del gruppo E chiosati da Paci in Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, altro testo del 1961 che meriterebbe una ristampa!-, finalizzata alla "miglior vita possibile" nel quadro di una 'radicale auto-responsabilità' e di un radicale anti-autoritarismo sociale e politico culminante in una 'comunità d'amore' altrettanto 'aperta' e infinita- tutto ciò, rimane quale 'eredità del nostro tempo' da mettere a frutto in un momento di indebolimento strutturale planetario del dominio borghese consci che lo scontro tra le due classi in lotta può finire anche con la comune rovina di entrambe.



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venerdì 3 giugno 2011

Rec.a Vincenzo Costa,"Fenomenologia dell'intersoggettività",Roma,Carocci,2010

Ecco un altro bellissimo lavoro di Vincenzo Costa. Da circa un quindicennio, l’Autore ci ha abituato, con quel linguaggio piano e quel piglio socratico che gli deriva dall’appartenenza alla scuola fenomenologica di Milano, ad inoltrarci nei meravigliosi territori della ricerca husserliana, seguendone la precisione micro-chirurgica – e l’inesorabile flessuosità di stile analitico che lo accomuna all’altra grande fenomenologia, quella hegeliana – della dissoluzione di tutto ciò che ‘appare’ come im-mediatezza e che, una volta sottoposto, da un ego trascendentale sempre più esigente, alla dialettica dell’auto-manifestazione ( determinante gia a partire dalle Ricerche Logiche), cede la propria compatta ingenuità di ‘dato’, con un movimento a spirale enucleante livelli, orizzonti sempre più profondi di fondazione e di ‘senso’, all’operazione costitutiva infinita della soggettività trascendentale -soggettività mai coscienzialistica, bensì alveo produttivo inoggettivabile intrinsecamente storico, di conferimento di 'senso' , mera “intenzionalità fungente” (Eugen Fink, “Das Problem der Phanomenologie Edmund Husserls”, in: “Revue internationale de philosophie” , gennaio 1939, pp. 226-270), vero e proprio atto in atto - ovviamente senza implicazioni ‘attualistiche’, anzi! -, ovvero nunc stans, lebendige Gegenwart, Urstand, Ur-Ich (se privilegiamo il lessico dei “Bernauer Manuskripte”, dei “C-Manuskripte” o della Krisis).
Ma il nostro sarebbe un discorso monco ed in radicale contrasto non solo con le nostre ma anche con le intenzioni dell’Autore se, alla fine di questa discesa nel “regno mai esplorato della ‘madre della conoscenza’” (Krisis, § 42), non trovassimo, in luogo di ciò che da principianti filosofi ‘cartesiani’ ci aspettavamo, ciò che da sempre è invece già dato e rispetto al quale non occorre ‘gettare ponti’: vale a dire non un vuoto simulacro, un’algida quanto trasparente ‘coscienza’ bisognosa di mediazioni a posteriori con i vari stadi ‘paradossali’ della sua formazione o con gli alter ego portatori di equivalenti importi intenzionali, bensì quella stessa ‘intenzionalità fungente’ ora finalmente rivelantesi come correlazione universale delle soggettività costituenti, grammatica universale del riconoscimento, ‘armonia prestabilita’ tra le monadi, scaturigine originaria del senso: l’intersoggettività, quale originaria matrice della costituzione della Lebenswelt (così come efficacemente Husserl riassumerà nei §§ 45-55 della Krisis).
Tale è la posta in gioco che una teoresi fenomenologicamente orientata è chiamata odiernamente a rivendicare ed a ridefinire in un serrato confronto con gli stessi avversari husserliani di un tempo opportunamente dissimulantisi, con le moderne versioni del riduzionismo fisicalistico e del soggettivismo dis-incarnato, e tale è il livello della sfida che Costa fa propria declinandola in maniera assolutamente personale.
Se con ‘senso’, dunque, intendiamo – seguendo, in lavori precedenti di Costa, la ricostruzione delle analisi di Husserl – sintesi costitutiva interminabile effettuata dall’intenzionalità nella sua globalità, costituzione di qualcosa come ‘unità’ soggetta, in virtù dell’esercizio infinito della riduzione fenomenologica, ad una sempre ulteriore determinabilità attraverso l’esplicitazione dei suoi infiniti orizzonti, interni ed esterni, allora termini come io, tempo, cosa, altro, abbandonano la loro ottusa im-mediatezza per divenire meri ‘titoli’, meri ‘fili conduttori’ in grado sia di esibire, attraverso l’analisi statica, la propria stratificazione di senso noetico e noematico, sia, attraverso l’analisi genetica, la propria storicità costitutiva, come opportunamente notava tra i più autorevoli esegeti Van Breda interpretando le pagine husserliane sul “Metodo fenomenologico statico e genetico” coeve alle “Lezioni sulla sintesi passiva” del 1920-21.
Ora, agli occhi del filosofo di Prossnitz, proprio in virtù di questo movimento dialettico e a maggior ragione in virtù della sua presunta – fino a prova contraria – primarietà fondativa, la categoria della soggettività che abbiamo in precedenza introdotto risulta, dopo una prima ‘riduzione cartesiana’, estremamente povera di contenuto intenzionale, al punto da necessitare di ulteriori riduzioni. Di questo limite, Husserl sarà pienamente consapevole almeno fin dal corso del 1910-11 sui “Problemi fondamentali della fenomenologia” (vero e proprio punto di svolta della teoresi husserliana) e non smetterà di ritornarvi a livelli sempre più complessi di approfondimento – bastino, per tutte, le “Lezioni sulla filosofia prima” del 1922-23 –, tant’è che prolungherà questi tentativi di rendere più articolato e persuasivo il profilo metodologico della riduzione fino agli ultimi anni di vita, percorso che culminerà – tanto per restare alle opere edite in vita dall’autore – nelle Meditazioni Cartesiane e nella parte edita della Krisis.
La pars construens del libro di Costa – dando giustamente tutto ciò che precede per scontato per un lettore di testi di tale complessità e, anzi, disseminando intelligentemente questa ricostruzione filosofica dei caposaldi della fenomenologia lungo tutto il libro con preziosi riferimenti, bibliografici e testuali, altrimenti indisponibili – si incardina, dunque, su questi presupposti.
La tesi del libro, introdotta nel cap. 1 (e ampiamente ripresa nel cap. 9, pp. 212-218), è infatti quella di un’originaria costituzione intersoggettiva del senso di quella totalità articolata e gerarchicamente strutturata chiamata ‘mondo’ e che noi troviamo già da sempre disponibile quale sfondo naturale della nostra azione, a portata di mano, già istoriata da concrezioni di vissuti sociali densi di rimandi, operativi in senso lato, alle operazioni stratificate di costruzione della realtà sociale. Il senso del segno è dunque intersoggettivamente costituito, sia che osserviamo la dialettica del segno espressivo, sia che ne valutiamo il divenire formale nei suoi vari livelli di oggettivazione (senza dimenticare che, originariamente, quindi al livello di un’indagine genetica, non meramente statica come quella sviluppata, nell’arco dell’intero volume, ad eccezione del capitolo conclusivo, per esplicita scelta metodologica, dall’Autore e con un empito ‘somatologico’ in grado di richiamare le migliori analisi della “Struttura del comportamento” e della “Fenomenologia della percezione” di Merleau-Ponty, il ‘senso’ affiora dalla sapiente orchestrazione di rimandi, significativi soltanto all’interno di un mondo, veicolati dalle mani e dalla voce (pp. 203-212) in perfetto accordo con Mead e con l’Husserl della terza sezione del secondo volume delle Idee). Con una bellissima immagine, nell’ambito della discussione critica delle tesi di Damasio sulla “coscienza nucleare” (pp. 50-54), Costa suggerisce che “il presente momentaneo è strutturalmente abitato dalla non-presenza” (p. 52) – si vedano, a questo proposito, le pagine delle cruciali lezioni husserliane del 1910-11 sul ricordo come trascendenza immanente – e che tutto ciò che sembra essere, come, appunto, la ‘coscienza nucleare’, mera coscienza mono-dimensionale, priva di strati costitutivi come di Horizont temporale, è in realtà, agli occhi di un’analisi fenomenologica rigorosa, “coscienza estesa, intersoggettività e segno” (p. 54). È dunque in questa fitta trama di significazioni socialmente condivise (o che, con il Dilthey ‘sociologico’ – qui veramente trascurato, ancorché l'autore di Esperienza vissuta e poesia sia stato assolutamente determinante, per ammissione dello stesso Husserl non solo nella lettera a Mahnke del ’27 in cui si ripercorre il cammino della trasformazione delle Ricerche Logiche nelle Idee, ma anche nell’apprezzamento husserliano nel 1911, così come emerge dalla terza sezione di Idee II e dalla lettera a Misch del 1929 - potremmo definire connessioni dinamiche, tendenzialmente universalizzabili dallo ‘spirito oggettivo’ su su fino allo ‘spirito assoluto’), ancorché inintelligibili ad un individuo – quello contemporaneo – refrattario alla dissoluzione della reificazione, che si costituisce una diversa, alternativa nozione post-strutturalistica di ‘totalità’ (pp. 138-148), all’interno della quale si muovono creativamente i singoli soggetti (e già dai primissimi frammenti husserliani sulla monade degli anni 1908-09 collazionati da Kern nella monumentale silloge del 1973, sappiamo quanto sia importante per il Nostro l’individuo!) alla luce non di un ‘lumen naturale’ bensì appoggiandosi alle rispettive riserve di produttività simbolica, svincolate dal ferreo, quanto ermeneuticamente inefficace, determinismo dei paradigmi dell’imitazione e della simulazione , retaggio della pseudo-antropologia non-appresentativa compendiata nella categoria di entropatia per l’afferenza implicita del termine all’orizzonte di un approccio ‘mentalistico’ – e non ‘indiziario’, non costruttivistico in senso lato – alla problematica dell’alter-ego (e in questo senso, è importantissima la ripresa – pp. 157-158 – da parte di Costa, della critica husserliana quasi negli stessi termini, cfr. Iso Kern, “Zur Phänomenologie der Intersubjektivität”, Erster Teil, 1905-1920, Text 13). Nel campo degli atti sociali, infatti, non esiste ‘imitazione’ nel senso di ‘rispecchiamento’ di un’azione altrui o di un significato, veicolato dall’azione stessa: se vogliamo, l’unico orizzonte teorico – sicuramente presente allo stesso Husserl sin dall’avvio della propria riflessione sull’intersoggettività e, a parer nostro, per quest’ultima determinante – all'interno del quale ha senso per Husserl parlare di ‘rispecchiamento’ è quello della Monadologia leibniziana (artt. 56-60), ‘rispecchiamento’ che avviene esclusivamente mercé le ‘piccole percezioni’ (artt. 14,16, 20-25, 59-60 e prefazione ai “Nuovi Saggi”), che nella husserliana teoria delle ‘implicazioni intenzionali’, vale a dire nella dialettica di ‘sfondo’ e ‘primo piano’ predominante già a partire dal primo volume delle Idee con l’introduzione delle strategiche categorie di Horizont, Hintergrund e Untergrund, assurgeranno a livello di quelle ‘visioni’ originariamente costituenti che (in Esperienza e giudizio più chiaramente che altrove) verranno sviluppate come esplicitazioni (relative al semplice ‘orizzonte interno’) e relazioni (relative al più comprensivo e strategico ‘orizzonte esterno’).
Ed è infatti all’indagine della ‘sfera monadologica’ che è dedicato il cruciale cap. 2 del libro, dapprima attraverso l’analisi della costitutiva individualità temporale della monade – che Husserl introduce nel 1908 – e della sua conseguente irriducibilità ad altra monade (su questo, cfr. anche il cap. 4, pp. 109 ss.), tanto più quando, nel 1909-1910, poco prima del corso sui Problemi fondamentali della fenomenologia, a rendere individuale ed irriducibile la monade non è più e non tanto il singolo vissuto di coscienza bensì l’intero flusso di coscienza. L’individualità temporale della monade, in Husserl, è infatti un concetto-chiave che si evolve continuamente: dai Manoscritti di Seefeld, nel 1905, attraverso la scoperta, nel 1907, del flusso originario (si veda il testo n. 36 delle Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo del ’28) e della sua auto-costituzione in unità in virtù della dialettica di ‘intenzionalità trasversale’ e ‘longitudinale’ all’apertura di quello che è stato chiamato il processo di “dissoluzione dello schema contenuto apprensionale-apprensione”, processo che porta dritto dritto ai Problemi fondamentali della fenomenologia dove, con la doppelte Reduktion, si passa – e questo è un passaggio cruciale che Costa aveva già esaurientemente analizzato nel suo libro su Derrida – ad un superamento (sulla base della teoria delle implicazioni intenzionali – p. 62 – percorrenti massicciamente il primo volume delle Idee – cfr. §§ 35 ss.) della concezione dell’evidenza, dell’apoditticità basata sulla ‘semplice-presenza’ ad una basata sull’intreccio, pre-delineante per la presentazione originaria della percezione, di ritenzione e protenzione, struttura che troverà nei Bernauer Manuskripte del 1917-18 il suo culmine in una articolazione della problematica della temporalità così complessa da poter costituire l’asse di fondo del ragionamento di Filosofia prima nel 1922-23 e sancire l’atto di nascita di quell’epoché universale in grado di proiettare Husserl verso la sua ultima, rivoluzionaria produzione con un definitivo ‘distacco dal cartesianismo’ (Landgrebe) e dagli asfittici residui ‘coscienzialistici’ che, secondo Husserl – e anche secondo Costa – ingiustificatamente, appannavano la comprensione, da parte dei contemporanei, dell’innovazione fenomenologica. Nell’ultima parte del cap. 2 (pp. 70-74), nel cap. 3 – significativamente intitolato “Perché ascriviamo una mente agli altri?” – e nel cap. 5, l’Autore si accinge invece a tracciare un altro delicatissimo passaggio per la fenomenologia, quello che mette al proprio centro la tematica del Leib, di quel ‘corpo vivo’ che non è mera cosa fisicalisticamente ridotta, bensì latore delle sensazioni localizzate, complessione di apparati cinestetici governati dall’‘io posso’, punto-zero dell’orientamento, vera e propria soggettività incarnata che – all’altezza della “Quinta Meditazione Cartesiana” (§§ 44 ss.), nell’ambito della densissima, stupefacente trattazione della sfera dell’appartentività, all’interno della cui compagine intenzionale è dato per la prima volta, quale originario quanto intrascendibile ‘fenomeno’, qualcosa come un mondo primordinale, uno strato configurantesi come ‘trascendenza immanente’ dalla quale far sgorgare, non dedurre cartesianamente, attraverso una ‘tipica’ fenomenologicamente rigorosa, il ‘mondo oggettivo’ quale macro-fenomeno mercé l’operare della legalità fenomenologicamente primaria dell’associazione, quindi secondo la logica delle ‘sintesi passive’, producente ad un tempo l’accoppiamento (Paarung) e la trasposizione appercettiva in grado di rendere ap-presentativamente l’alter-ego in base alla quale l’io costituisce il proprio ‘senso’ del mondo – rappresenta la stessa condizione di auto-manifestatività dell’alter-ego.
Tutto ciò (cap. 6) sempre nella strutturale triangolazione ‘io-tu-mondo’ (cfr. anche cap. 4, p. 117 e cap. 7, pp. 158-160), come se l’esperienza dell’alter ego non potesse non trovare scaturigine se non al punto di intersezione tra il complesso degli stimoli ‘motivazionali’, non causali, provenienti dal ‘mondo circostante’ (Umwelt) e la ricerca, da parte dei soggetti oramai assunti quali ‘monadi aventi finestre’, di criteri oggettivi per l’ascrizione all’altro di una mente, punto d’intersezione che è un ‘-esser-ci (già-da-sempre)-con-gli-altri’ di heideggeriana (e diltheyana/scheleriana) ascendenza e che Costa mostra essere un elemento di contiguità ermenutica e teorica tra l’autore di Essere e tempo e Husserl, al di là – almeno relativamente a questo punto – delle reciproche incomprensioni a partire dal 1927/1929. Infatti, per Heidegger – e anche per de Saussure o per Mead – il manifestarsi del linguaggio nella sua vivente effettualità di ‘atto linguistico’ presuppone un’‘apertura’ preliminare, una precedenza dell’orizzonte del ‘mondo della vita’ e della pre-comprensione – e quindi uno (s)fondo intersoggettivo della catena dei ‘rimandi’ significativi – in grado di recepire, tesaurizzare elaborandola e restituire, complessificata e stabilizzata, l’‘intenzione significativa in nuce’, il ‘simbolo significativo’ oramai divenuto oggetto ad ogni nuovo ‘attore’ che si profili – anche come bambino – sulla scena del mondo dotato solo della (husserliana, originariamente matematica) solitudine dell’immaginazione produttiva e mai di algoritmi o di risposte istintuali, mettendolo nella condizione di procedere, più o meno criticamente, all’edificazione del Sé partendo da un proto-ruolo sociale oggettivato nel simbolo significativo che consente già una prima ‘teatralizzazione sociale’, ad es., nel monologo interiore (pp. 45 ss.).
Va da sé che a fare le spese di questo approccio siano, nel libro, gli emuli di quel Theodor Lipps e dei suoi enigmatici ‘istinti’ analizzati nel cap. 8 (pp. 178; 184-186), autore già ampiamente criticato da Husserl tra il 1907 ed il 1909 (cfr. Iso Kern, “Zur Phänomenologie...”, cit., Erster Teil, 1905-1920, Text 2 e Beil.X e XVI ) per la debolezza della sua risposta al crollo del paradigma della costituzione ‘analogica’ erdmanniana (ivi, Beil. IX), come se l’apprensione esperienziale dell’alter-ego (ivi, Text 2) dovesse e potesse essere ricondotta direttamente e misteriosamente, ricorrendo a subdole presentificazioni analogiche, all’autentica, indubitabile ‘visione originalmente offerente’ del primo volume delle Idee e a quelli che sono i modi di datità dell’apprensione esclusivi dell’ego dei propri vissuti – dati, per Husserl, in ‘presentazione originaria’ immediata – e perciò stesso escludere l’unica forma di accesso (mediato) nell’entropatia ai vissuti estranei attraverso la ‘trasposizione appercettiva’, la comprensione interpretante (anche se qui andrebbe sottolineata la differenza dell’approccio del ‘manoscritto del 1912’ (Husserliana V, pp.109-110) rispetto all’elaborazione della corrispondente trattazione, nel 1915, nel secondo volume delle Idee contenuta in Husserliana IV, pp. 109-110 e in I.Kern, “Zur Phänomenologie...”, cit., Erster Teil, Text 3, pp. 53 ss.). Di conseguenza (cfr. cap. 8, pp. 173-174; 186-190), se da una parte, quindi, imitazione e simulazione si limitano a re-duplicare e a proiettare semplicemente i vissuti propri e intrascendibili di un ego sull’altro, non facendo crescere alcun margine di intederminabilità e di latenza del senso all’interno del rapporto intersoggettivo, l’immaginazione (pp. 190-197) – ancorché distinta, come presentificazione, dalla rimemorazione e, quindi, dall’impossibilità di costituire a ritroso eventualmente l’unità di un singolo flusso di coscienza – attraverso il suo specifico ‘come-se’, attraverso la sua specifica modalità essenziale di trasposizione appercettiva all’‘interno’ della (meadiana) gestualità significativa dell’altro, dei comportamenti dell’altro, nei luoghi dell’altro, nel ‘complesso esperienziale’ triangolare dell’altro, costituisce lo strumento imprescindibile di trascendimento del ‘dato’ della separazione dei vissuti ‘congelata’ nelle varie modalità di approccio ‘empatico’ ed il vero nucleo propulsivo della costruzione dell’(immagine dell’) altro. L’immaginazione – in primis quella matematica – nasce quindi per contrastare batterie segniche, codici semiotici che vengono utilizzati solo per sedurre – e così capiamo anche il riferimento pregnante di Costa a Sartre e alla ‘vergogna’ di essere guardati entomologicamente (pp. 128-131), come Emma Bovary sul letto di morte –, per impiantare se stessi nel cuore dell’altro; così come eminentemente 'immaginativa' in questo senso traslato, d’altra parte, è la strategia ‘agostiniana’ di Husserl del “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas” rivendicata esplicitamente nelle Meditazioni Cartesiane ma operante da sempre, almeno a partire dal riferimento all’intuizione ‘mistica’ de “L'idea della fenomenologia” del 1907 conseguente alla scoperta nevralgica, fondante, della “correlazione fondamentale” (ricordata anche nella Krisis, § 46).
È in uno ‘stile’, in una ‘tipica’ radicalmente antagonistica che si muovono, quindi, i ‘nipotini di Lipps’ sopra incidentalmente ricordati. Ci riferiamo, da una parte, all’opzione metodologica ‘mentalistica’ di Baron-Cohen, il confronto con il quale viene già anticipato nell’“Introduzione” e sviluppato nel cap. 7 (pp. 159-167) e, dall’altra, al riduzionismo della teoria dei ‘neuroni-specchio’ la cui disanima è avviata da Costa nel cap. 3 (pp. 100-103), ripresa nel cap. 7 (pp. 167-172) e sviluppata organicamente nel cap. 8 (pp. 181 ss.), con la sua deterministica struttura neurale di base, già ampiamente criticata da Lohmar qualche anno fa e che l’Autore (p. 170) ritiene filogeneticamente “‘intrisa’ di storia” ma ermeneuticamente irrilevante rispetto all’interpretazione del vissuto altrui e della relazione io-tu. C’è da dire – e questo è un tratto che, da solo, meriterebbe la lettura di questo libro – che Costa si è sempre confrontato con tutti gli autori, per quanto lontani potessero essere dalla tradizione fenomenologica, non per respingerne a priori l’argomentazione ma, laddove possibile, per mediare, recepire, integrare, ottemperando perfettamente all’empito ‘universalistico’ di quel telos in cui si compendia, all’altezza della Krisis, l’essenza più autentica della fenomenologia trascendentale. Di conseguenza, oltre al dialogo sempre franco e producente con la filiazione sociologica husserliana e post-husserliana di Schütz (pp. 157-160) – quello stesso Schütz che, a partire dal 1942, criticando però aspramente la “Quinta Meditazione Cartesiana” (dove Scheler viene sì ricordato incidentalmente solo verso la fine ma anche indirettamente combattuto lungo tutta l'ampia riflessione circa l'intersoggettività) e riscoprendo Scheler e il suo diverso approccio all’intersoggettività rispetto a quello husserliano, giunge ad esiti molto diversi da quest’ultimo –, Goffmann, Berger, Luckmann e con i teorici dell’interazionismo simbolico (anche se manca un’adeguata considerazione non solo di Zahavi-Gallagher e Depraz, ma di quel ‘gigante’ – stranamente assente nel testo! – della sempre più convincente corrente ‘neurofenomenologica’ contemporanea, vale a dire Francisco Varela, di cui si sarebbe potuto ricordare almeno lo strepitoso saggio “Una soluzione metodologica al problema difficile – Neurofenomenologia” in: “Pluriverso”, a. II, n° 3), il confronto con le suddette opzioni metodologiche neo-riduzionistiche in senso fisicalistico di ermeneutica sociale – non solo inefficaci in quanto inapplicabili al mondo umano per definizione incardinato su libertà e, quindi, storicità, ma anche dimentiche dell’incommensurabilità delle esperienze dei singoli individui sulla base del privilegio, da una parte, della primarietà del proprio vissuto di coscienza dato in ‘donazione originaria’ ad ogni singolo individuo e, dall'altra, della conoscenza dell’altrui vissuto solo su base indiziaria, mediata, ap-presentativa veicolata dall’impenetrabilità e dall’espressività del Leib –, il confronto, diciamo, ripropone la storicità e l’intersoggettività costitutiva del ‘segno’ e del ‘senso’ – anche a livello del monologo interiore – per definizione reversibili in quanto integrati nella fluidità magmatica di fondo che sostiene le dinamiche interpersonali della comunicazione e dell’agire strategico e /o comunicativo. Storicità, cioè, secondo Costa, che arriva a lambire e perfino a ‘costituire’ i profili salienti della personalità (nel senso in cui questa categoria è adoperata nella terza sezione del secondo volume delle Idee) nella molteplicità dei propri livelli – oltre agli strati fondamentali della percezione della cosa deputati anch'essi ad ospitare una fruizione condivisa – dell’esperienza del mondo.
Che operazioni teoretiche del genere di quella di Costa – intelligentemente sostenute dall'editore Carocci, non nuovo a tale genere di iniziative e cui non si può non esser perciò grati – tornino ad attraversare, con tutta la loro forza, il dibattito filosofico contemporaneo è non solo auspicabile, ma anche storicamente urgente: solo allora avremo la possibilità di ripensare, contestualmente ad una riforma etica dell'Umanità e come suo prolungamento organico, l’approntamento di una mediazione storico-politica audacemente riformistico-strutturale tra lo ‘spettatore trascendentale’ e il filosofo ‘leibhaft’ quale ‘funzionario dell’umanità’ anti-gerarchico e comunitariamente diffuso in direzione di una re-integrazione attivamente solidale,mercé la ‘filosofia come scienza rigorosa’ quale autentico ‘imperativo categorico’, di un'umanità polverizzata e cieca.


Indice
Introduzione
I.    Perché la coscienza è originariamente intersoggettiva? Segno, linguaggio e monologo interiore
II.    Che cosa ci rende coscienze separate? Originarietà del vissuto, temporalità e unità psicofisica.
III.    Perché ascriviamo una mente agli altri? Proprio, somiglianza e trasposizione analogica.
IV.    Che cosa accade con l’apparire dell’altro? Decentramento, socialità e storia.
V.    Come si manifesta l’altro? Corporeità, espressività e sguardo.
VI.    La cultura è intersoggettiva? Senso, rimando e motivazione.
VII.    Come comprendiamo intenzioni e azioni? Comprensione, lettura della mente e neuroni specchio.
VIII.    Come comprendiamo gli stati d’animo altrui? Empatia, imitazione e simulazione.
IX.    Come, nel rapporto intersoggettivo, sorge la coscienza? Mani, voce e comunicazione.

L'autore
Vincenzo Costa (San Cono, Catania, 1964) è Professore Associato di Filosofia teoretica presso l’Università del Molise. Ha pubblicato: La generazione della forma. La fenomenologia e il problema della genesi in Husserl e in Derrida (Jaca Book, Milano 1996); L'estetica trascendentale fenomenologica. Sensibilità e razionalità nella filosofia di Edmund Husserl (Vita e Pensiero, Milano 1999); La verità del mondo. Giudizio e teoria del significato in Heidegger (Vita e Pensiero, Milano 2003); Esperire e parlare. Interpretazione di Heidegger (Jaca Book, Milano 2006); Il cerchio e l’ellisse. Husserl e il darsi delle cose (Rubbettino, Cosenza 2007) ; I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica (Quodlibet, Macerata 2009 ); Husserl (Carocci, Roma 2009 ).
Sul fronte dell'impegno di traduttore di testi husserliani, ricordiamo tra gli altri I problemi fondamentali della fenomenologia. Lezioni sul concetto naturale di mondo (Quodlibet, Macerata 2008).
Links
http://it.wikipedia.org/wiki/Husserl (pagina della Wikipedia italiana dedicata ad Edmund Husserl)

lunedì 11 aprile 2011

Contro-replica a Roberta De Monticelli sulle mie note alla traduzione dei saggi finkiani a cura di N.Zippel

Ieri, la Prof.ssa Roberta De Monticelli (Università San Raffaele di Milano)ha postato le seguenti osservazioni alla mia recensione alla traduzione italiana degli scritti fenomenologici di Fink ad opera di N. Zippel:

"Un commento un po’ informale. Ahimé, povero Husserl. Già la prima generazione di allievi capì ben poco, anche nei suoi migliori e oggi a noi indispensabili esponenti, del titanico progetto di rifondazione del pensiero pratico, che ha in cuore il rigetto della dicotomia humeana di fatti e norme e un cognitivismo assiologico e morale a base socratica, ma senza intellettualismo e con una teoria dell’esperienza morale capace di reggere il confronto fino ai nostri giorni, fino a Dworkin. Ma poveraccio, fu incastrato da molti allievi in dispute un po’ inconcludenti sugli ismi, e si perse nei meandri del (passabilmente inutile) solipsismo metodologico. Nel giovane Fink aveva riposto le sue speranze. Deve essere stato un po’ la sua consolazione, all’inizio, dopo il disgustoso tradimento morale di Heidegger (revoca della dedica di Sein und Zeit, approvazione della revoca nazista dela venia legendi a lui ebreo. Cose da vomito). Ci mancava pure questa storia qui - il povero lieber Meister rintronato, sulla soglia del suo morire, e quello che si mette a danzare la filosofia me-ontica (aiuto) dello spirito assoluto, e come se non bastasse con dionisiaca e superomistica ebbrezza a braccetto dell’”amatissimo” Nietzsche. Povero Edmund, anima cara. Ma, cari amici, povera Europa, poveri noi. Vi pare proprio irrilevante? Queste finkiane fesserie (chiedo perdono - non ve ne importa nulla?) avvengono nel ‘37. Ma avete una vaga idea di cosa c’era intorno, in Germania e nell’università tedesca? Di cosa significava, questa dionisiaca ebberezza? Mah…"

Ed ecco la mia risposta:

"Sono perfettamente d'accordo con Roberta De Monticelli.
Non ho ben capito,però,se la sua apostrofe finale si rivolga a me o a quanti,incantati -loro sì,non il "lieber Meister"!Il caro vecchio Husserl è di una potenza infinita,è ineguagliabile!-dall'inconcludente 'gergo dell'autenticità'heideggeriano e finkiano,abbiano teorizzato la morte del soggetto,il ' pensiero debole' e l'equivalenza dei relativismi gettando l’intellettualità europea nel disorientamento a-politico e nel relativismo morale-concordo anche su questo con De Monticelli e con il suo articolo su Reggio Emilia- dato che il mio approccio alla fenomenologia è radicalmente filo-husserliano,quindi lontano anni luce da complicità con filosofie ‘me-ontiche’ o con anti-umanismi da ‘pastore dell’Essere’ed è un approccio radicalmente ‘politico’ in senso platonico-aristotelico,come si evincerà facilmente,seppur sommariamente,dalle righe che seguono.
Infatti,sono radicalmente convinto -e anche in questo credo di sfondare una porta aperta con la mia interlocutrice sempre così stimolante- che se Husserl avesse ,nei primissimi anni Venti (così come viene ricordato nella lettera a Misch del novembre 1930,laddove Husserl sottolinea che già da dieci anni erano pronti i materiali per una trattazione sistematica di una soggettività trascendentale assolutamente 'concreta'-teorico-pratica-estetica,ecc-!!!,asserzione che ricompare,con enorme nettezza,anche nella “Krisis”,p.290,tr.it.),grazie alle sue forze ancora intatte e ad una teorizzazione oramai definitivamente acquisita -1)unità di teoria e prassi(Platone e Socrate,per intenderci!)nell'ambito di un progetto di 'rinnovamento' socio-politico democratico-radicale mirante all'estinzione di ogni forma di potere tramite una (quasi) gramsciana anticipazione comunitaria da parte dei filosofi come come 'funzionari';2)idea di una comunità personalistica in grado di superare la dicotomia tonnesiana tra 'comunità' e 'società',quindi anti-organicistica e anti-capitalistica,ossia anti-'prestazionistica';3)fondazione di una teoria etica poggiante -si vedano,oltre a “Fichtes Menscheitideal”(parte II,pp.281-284 e l’intera parte III)i "Kaizo-Artikel" e le corrispondenti parti di "Erste Philosophie",II,pp.8-17,ecc.-sulla preliminare fondazione emozionale (qui c'è sicuramente un'acquisizione del miglior Scheler del "Formalismo"!)dell'essere dell'uomo con conseguente 'vocazione' da parte del Valore Assoluto -il platonico Bene, perseguito  'eroticamente' anche dal 'lieber Meister, del "Fedro" e del "Simposio",opere che Husserl rilegge in quegli anni-e 'risposta',da parte del soggetto,anche nella sua articolazione sovra-personale,attraverso la 'filosofia come scienza rigorosa';4)infine,monadologia assoluta,carattere ultimamente costituente dell'intersoggettività trascendentale finalmente attore di una 'storia trascendentale'(Krisis) quale interrelazione reciprocamente infinita e intro-sentirsi(E III 5,il tardo frammento tradotto e commentato da Paci)come 'reminiscenza' obiettivante di un' universale Impulso,di una Hyle in-oggettivabile,'lebendige Gegenwart',intenzionalità fungente costantemente in atto e in grado,nella sua particolarizzazione in ogni singolo uomo,di trapassare l'ottuso 'milieu'(Kaizo)di una 'tradizione' che,anziché costituire (v.Kaizo e Krisis) un necessario tramite intersoggettivo-storico
nell'ambito della teoria husserliana della 'generatività, si ispessisce nella propria auto-referenzialità prodromica all'affermazione dell'ansia prestazionistica e della strutturazione,con quest'ultima co-istituita,'imperialistica'-nel senso di centralistica ed asfitticamente gererchica-dei rapporti umani in senso lato(c’è da dolersi che la terza parte della “Krisis”,che contiene queste inarrivabili analisi, sia rimasta inedita fino al 1954:con il testo completo a disposizione,con quelle magistrali affermazioni della ‘buona’ tradizione e della ‘buona’ storicità già abbozzate nel ‘33 nell’App.X e nella relativa nota 1 alla “Sesta Meditazione”,si sarebbero evitate tante inutili dicerie sull’Husserl ‘a-storico’!)- dato alle stampe quest'opera sistematica,avrebbe disinnescato derive irrazionalistiche e influito anche politicamente sulla travagliata Repubblica di Weimar -come vedremo più diffusamente avanti-nella direzione di quel co-filosofare socialmente condiviso da una comunità integralmente ricostruita oltre qualsiasi barriera gerarchica -si vedano,tra le altre, le lettere al conte von Keyserling del 1919 e quella a Bell,del 1920.
Per quanto riguarda Fink -autore gigantesco ma non mio,come mio non è Heidegger:io sono e rimango husserliano e non accetto trapianti indebiti di uno nell'altro (v.la preveggente lettera di van Breda a Merleau-Ponty del dic.'45,in cui lo invitatava a non appiattire Husserl sulla lettura finkiana!)-:Fink ha sicuramente ragione nel definire l'impresa husserliana quale 'cosmogonia', interrogazione radicale sull' "origine del mondo"(v.saggio del '33 su "Kant-Studien")conseguente ad un’applicazione effettivamente radicale della ‘riduzione’e non ennesima,mera 'descrizione eidetica'(v.anche la lettera husserliana a Mahnke del 1927,equanime ma ferma sulla 'sintesi' con Dilthey!)della periferia 'oggettuale'pre-data onticamente,"fenomenicamente" -anche se poi,purtroppo, sarà questa seconda chiave di lettura,'operativa' e non 'tematica',nell' "ombra del filosofo",quella predominante in Fink:un Husserl irretito nell'incanto della finitudine che,angosciato,ritorna all'ombra della tranquillizzante 'ingenuità naturale' del tradizionale concetto di 'mondo' ed edifica pseudo-metafisiche ontogoniche quali voli di Icaro modellandole sul ristrettissimo profilo della 'cosa materiale' quale mero fenomeno,mero complesso di correlati intenzionali coscienziali acriticamente istituiti dal 'neo-hegeliano'(!!!) Husserl-:la fenomenologia,per il filosofo di Prossnitz,è scienza dell'Ego trascendentale,della 'lebendige Gegenwart' -che dovremmo scrivere con la maiuscola anche in italiano,dato che questa Presenza è,per ammissione dello stesso Husserl-Dio quale Totalità Infinita (e qui sarebbe d'accordo anche Lévinas!)-,Ego che anima il cosmo dai suoi strati più elementari su su fino allo (non 'esponenziale',anti-finkiano) "spettatore fenomenologico"in quanto pura auto-coscienza dell'Ego cosmico -v.E III 5,trad. da Paci e commentato,nonché “Krisis”,pp.289-90,tr.it.,oltre le illuminanti parole,di trent’anni prima(!),certo conosciute e meditate da Husserl,del vecchio Dilthey in “Leibniz und sein Zeitalter”(GW III,1992,p.27,pp.62 sgg.,73 sgg.,274) laddove invitava a riconoscere nell’intuizione monadologica del bibliotecario di Hannover l’apertura all’universo come “senso,valori,sviluppo,vita,un regno scalare di aspirazioni che si esplicano,finalità immanente” mercè la teoria strategica e rivoluzionaria delle ‘piccole percezioni’-,Ego che è relazionismo universale,monadologia assoluta,intersoggettività ultimamente costituente in un telos infinito grazie alla scoperta husserliana dell'intenzionalità d'orizzonte infinita a partire da "Erste Philosophie II".Questa acquisizione -che,ripetiamo,avrebbe potuto costituire il quadro definitivo di quell'opera sistematica che Husserl aveva in mente di realizzare nei primissimi anni Venti-,nasce a Gottinga nel 1907 con la scoperta del "flusso della temporaltà costituente"(v."Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo",Parte I,Sez.III,§§34 sgg:,spec.§36 -"per tutto questo,non abbiamo i nomi"-,si articola nella "doppelte Reduktion" intersoggettiva nel 1910-11 con il corso sui "Problemi fondamentali della fenomenologia",conosce una svolta decisiva a  Bernau (17/18)con i testi 14 e 15 dei "Bernauer Manuskripte",matura definitivamente,prima a S.Margen e poi a Friburgo, con le "Lezioni sulla sintesi passiva" del '20-'21 e sfocia nella "Erste Philosophie",nei "Kaizo-Artikel" e nell'"Etica" del '20-'24 basata sull' "a priori materiale"di ascendenza scheleriana:in sostanza,la "Crisi delle scienze europee" è già scritta virtualmente nel 1922,non occorre aspettare l'iniezione 'esistentiva' di "Sein und Zeit" o altre amenità del genere;anzi:scrivendo l'opera sistemantica del Venti,Husserl avrebbe 'disinnescato' anticipatamente Heidegger e i suoi fraintendimenti della fenomenologia husserliana quale 'coscienzialismo',ecc. non trasmettendo equivoci ai suoi nipotini -Derrida,ecc.-e,forse,anche Fink non avrebbe trovato un terreno sul quale far crescere il proprio 'pensiero danzante' ma -come giustamente nota De Monticelli- si sarebbe concentrato su quella che,secondo Husserl,era l'unica,vera priorità:l'approntamento di una mediazione storico-politica audacemente riformistico-strutturale  tra lo "spettatore trascendentale" e il filosofo 'leibhaft' quale 'funzionario' anti-'imperialistico'-nel senso ricordato sopra,quindi anti-gerarchico e comunitariamente diffuso in direzione di una re-integrazione attivamente solidale,mercé la 'filosofia come scienza rigorosa' quale autentico 'imperativo categorico', di un'umanità polverizzata e cieca:ma la critica di Husserl allo Stato,al suo centralismo gerarchico,al suo carattere repressivo e funzionale al produttivismo prestazionistico capitalistico,a partire dal 1919, è così radicale,specialmente nei "Kaizo-Artikel",che,in nuce, un'estensione analitica delle sue categorie ermeneutiche storico-politiche all'imperialismo quale forma di unificazione dell'husserlianaHumanitas meramente statuale-economicistica in chiave repressiva,quindi radicalmente anti-teleologica,anti-razionale,anti-umanistica,non sarebbe a priori da escludere,considerato l'innalzamento esponenziale,in quegli stessi anni Venti e Trenta,del tasso di penetrazione colonialistica in Asia e in Africa,che di per sé costituiva,oggettivamente, anche un allargamento del bacino di soggettività potenzialmente coinvolgibili in un processo di unificazione teleologica che Husserl aveva immediatamente percepito !-anticipante,nella forma di una personalistica comunità di comunicazione,un'Umanità altrettanto concreta che,stretta tra democratismo radicale e barbarie, attendeva una chiarificazione,teorica e linguistica,della propria situazione alienata e reificata(per alcuni riferimenti testuali,specifici ancorché sommari,oltre all’intera “Krisis”,si vedano le note -lunghe-di Husserl alla “Sesta Meditazione”finkiana,in part. nn.374,380,396,433,514 e la n.469 -lunghissima ma dirimente!-,oltre alle App.II,VI,IX,XIII e XV)."

giovedì 24 marzo 2011

Complimenti al Prof. Nicola Zippel (Università di Roma,già brillante traduttore dell'husserliana "Introduzione all'etica"per i tipi di Laterza)  per la traduzione dei saggi finkiani sulla fenomenologia degli anni Trenta -
Eugen Fink, "Studi di fenomenologia 1930-1939" traduzione di N.Zippel,Lithos,2010, ISBN 978888960485.
 In questo modo,viene resa più chiara al lettore italiano digiuno di tedesco (ma già la lettura della Sesta Meditazione è di una straordinaria evidenza-per tutti,si veda il poderoso e ponderoso saggio di van Kerckhoven su "Mondanizzazione e individuazione" del '98,Il Melangolo) la lotta tra i titani Husserl e Fink,quest'ultimo già dalla fine degli anni Venti ampiamente avviatosi lungo un percorso assolutamente autonomo culminante-Husserl vivente!-nel  saggio sullo "Sviluppo della filosofia di Husserl" dello stesso anno (ora in "Prossimità e distanza",ETS),che altro non è che una ripresa -apparentemente meno traumatica e solo formalmente meno radicale,forse adeguata alle precarie condizioni di salute di un Husserl morente,nel dicembre del '37!- del § 10 (sulla predicazione trascendentale) della Sesta Meditazione imperniato,come le parti che lo precedono, sulla tematizzazione di quel  'concetto' di "analogia" che,insieme alle categorie di "apparenza",dialettica dell' "essere-per-sè" e dell' "essere-in-sè","mondanizzazione impropria",natura 'esponenziale',trascendentalmente eterogenea,dello "spettatore fenomenologico"rispetto all'ineffabile soggettività fungente-fluente trascendentale,palesano le massicce quanto teoreticamente -e oppositivamente rispetto ad un Husserl sempre più sconcertato all'altezza non solo di quel §10- fondanti frequentazioni, da parte del giovanissimo Fink, sia dello Hegel della "Fenomenologia dello Spirito" -su cui tra il '30 ed il '31 Heidegger teneva una celebre serie di lezioni- sia della filosofia di Anassimandro e di Eraclito,sia dell'amatissimo Nietzsche il cui "Uber-Mensch"dionisiaco serpeggia ovunque.
Non per nulla,la prima Appendice,di Fink, alla Sesta Meditazione contiene una succinta ma inequivocabile  sintesi dei punti di rottura con Husserl:uno per tutti -ma che li riassume nella loro totalità!-,l'affermazione,di fronte alla centralità husserliana dello 'spirito umano-finito',della centralità,antagonistica,di una "filosofia me-ontica dello spirito assoluto".
Sarebe interessante vedere tradotto anche il secondo volume dei materiali finkiani(Husserliana,Dokumente,1988) -il primo,la Sesta Meditazione, tradotto da Marini per Franco Angeli-:anche lì la differenza tra Husserl ed il suo 'assistente' è palpabile sin nelle minime sfumature,specialmente laddove Husserl commenta i §§ 2 e 5 del progetto finkiano del '31 sull'opera sistematica sottolineando la centralità della costituzione intersoggettiva del mondo ed una concezione radicalmente alternativa a quella finkiana del concetto stesso di 'mondo' -sulla scorta delle lezioni sui "Problemi fondamentali della fenomenologia" del 1910-11.
E così si ha anche la percezione dell'autonomia di Fink rispetto ad Heidegger,nonostante gli enormi punti di tangenza e di intersezione.
Povero Husserl,stretto tra la 'differenza ontologica' del filosofo di Messkirch e la 'differenza cosmologica' di Fink!
Ancora complimenti!

lunedì 14 marzo 2011

Beh,rompiamo il ghiaccio e vediamo di condividere qualcosa di più concreto.
Vi sottopongo alcuni minuscoli frammenti della mia attuale ricerca.
Cominciamo con dei brevi estratti di due recensioni apparse sui siti di BOL e "Feltrinellionline" qualche mese fa.
La prima si riferisce alla ripubblicazione,per i tipi di  Mimesis Edizioni,de "L'universale singolare" di Jean-Paul Sartre:
"Felicissimo corollario di quella ricerca verso "un fondamento politico all'antropologia" ricordata in'intervista di Sartre del 1960,il volume contiene -oltre al meraviglioso "L'universale singolare" dedicato a "Kierkegaard come avventura"- anche l'ideale prosecuzione di "Che cos'é la letteratura",cioè il saggio "Lo scrittore e il suo linguaggio",tutto giocato sull'incondizionato appello allo scambio dialettico tra le 'libertà' dello scrittore e del lettore miranti ad intercettare le più riposte pieghe del 'silenzio' dietro lo'stile'(autentico significato,mai totalmente oggettivabile quanto non lo è l'atto in atto della singolarità dell'esistenza comunicativa,dell'opera letteraria e della decifrazone critico-ricostruttiva del lettore).Il volume-oltre all'azzeramento, in direzione di una nuova teorizzazione libertaria, della tradizionale identità gerarchica dell'intellettuale classico ed alla conseguente delineazione di un nuovo intellettuale collettivo (derivante dal 'gruppo in fusione' presentato pochi anni prima nel primo tomo della "Critica della ragione dialettica") contenuti,tra l'altro,nell'intervista al "Manifesto"-,segna l'esplicitazione e la tematizzazione del ruolo giocato sulla matura riflessione sartriana -almeno a partire dalla fine degli anni Quaranta- da Merleau-Ponty,già ampiamente omaggiato nel saggio "Merleau-Ponty,vivo" (non presente in questa silloge),del quale si sottolinea l'ancoraggio alla "carne del mondo" quale multiversa ed infinita propulsività dell'"Essere selvaggio",quale interminabile interrogazione ontologica sempre aperta a nuove,inedite interpretazioni basate sulla libertà costitutiva del singolo uomo interagente con le altre libertà in direzione di una nuova -post-husserliana- intersoggettività. Libro da acquistare IMMEDIATAMENTE, anche al fine di scrollare di dosso a Sartre certi aspetti oramai datati per farne invece emergere una nuova dimensione della libertà individuale e collettiva ed una rifondazione di un post-marxismo che si abbevera a molteplici fonti non ortodosse.
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Alla precedente,ha fatto poi seguito una recensione molto sommaria a "Meditazioni cartesiane" di E.Husserl,Bompiani,a cura di Filippo Costa:
Quest'anno -2010- ricorre il sessantesimo anniversario della pubblicazione ,a cura di Strasser e dell'Archivio Husserl di Lovanio,di quell'edizione tedesca delle "Meditazioni cartesiane" che il filosofo di Prossnitz non riuscì a vedere.Non casualmente l'edizione dell'opera completa di Husserl prese avvio con questo titolo:in esso,il solipsismo metodologico,cartesiano,diventa "la via,la verità e la vita" di un nuovo,rivoluzionario soggetto,non più quello della metafisica idealistica classica giustapposto ad un altrettanto astratta oggettività -vedi anche Kant,secondo Husserl- bensì la "soggettività trascendentale" che,attraverso la 'riduzione fenomenologica', segna la prima tappa della costituzione dell'egologia trascendentale e,contestualmente, della"costituzione", oggettiva perché idealistica,quindi assolutamente veritativa, del "reale"(inteso oramai non più come 'trascendenza',come 'cosa in sé' inconoscibile,bensi quale contenuto di coscienza,realtà immanente all'io,'fenomeno' che non é apparenza,bensì autentica,auto-evidente auto-manifestatività dell'oggetto) che da ultimo,quale approdo supremo,apre al riconoscimento -quasi hegeliano,da "Fenomenologia dello Spirito" che instancabilmente passa dalla consapevolezza astratta della 'certezza' dell'io alla sua diffusione entro le maglie dell'essere al fine di diventare 'verità'-dell'Altro su basi entropatiche e analogiche. In questo modo,l'inter-soggettività -la cui onnipervasività lungo l'intero itinerario husserliano è stata magistralmente mostrata nei tre volumi dell' "Husserliana" curati da Iso Kern negli anni Settanta- diviene la nuova frontiera cui approda da ultimo la riduzione fenomenologica:eccellente viatico verso l'apertura dialogica e comunicativa tra uomini ispirati razionalmente e messaggio contro quella "barbarie del letterale" che anche un autore per molti aspetti lontano da Husserl come Th.Adorno riteneva essere la priorità 'polemica' -nonché 'politica'- del nostro tempo
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E adesso,un breve excursus circa i miei attuali progetti di 'lavoro':

Attualmente,nei ritagli di tempo,lavoro sui rapporti tra Sartre e  Merleau Ponty.
Trovo letteralmente determinante l'influenza di Merleau su Sartre (autore,tra l'altro,che leggo sempre con grande entusiasmo):da"Umanismo e Terrore",quell'annuncio dell' "evento",dell'intrascendibile opacità della storia -per stessa ammissione di Sartre in "Merleau Ponty vivant"- a "Le langage indirect et les voix du silence" -vero e proprio testo di ri-orientamento ontologico della ricerca sartriana di "Che cos'é la letteratura" - a tutti i testi degli anni Cinquanta(che condizionano radicalmente anche il Sartre della "Critica della ragione dialettica") fino a "Il visibile e l'invisibile" (che Sartre dimostra di conoscere nell'intervista a Versraeten del '65),quest' ultimo vero e proprio arsenale concettuale e terminologico dei lavori sartriani degli anni Sessanta,a cominciare dal "Flaubert" -con la sua teoria (merleau-pontyana) del 'vecu'-.
E' anche vero che nel testo commemorativo del '61 e nell'intervista con Verstraeten del '65 Sartre non può non insistere sulla soggettività -é in piena bagarre con Levi-Strauss,Foucault.ecc.-,ma non vi insiste mai unilateralmente,tenta mediazioni molto audaci,e,comunque,anche quando non la nomina ,l'influenza del Nostro emerge ad ogni passo...
Comunque:nel corso dell'ultimo anno,mi sono deciso a scrivere qualcosa solo su Merleau- Ponty,anche per l'imminenza del 50° anniversario della morte -occasione che spero conduca ad una massiccia pubblicazione di testi attualmente disponibili solo in francese e/o inediti -le famose 7 "Boites" depositate alla BNF.
Inevitabilmente,mi sono trovato ad incrociare nuovamente,dopo tanti anni,le ricerche husserliane sulla genesi passiva,considerato il carattere determinante che l'incontro dell'aprile 1939,a Lovanio,complice Van Breda,con i manoscriti husserliani inediti -specialmente quelli del 2° volume di "Ideen" e della terza parte della "Krisis"-riveste per la biografia intellettuale di Merleau-Ponty a partire dagli anni Quaranta sino alla fine del suo percorso teorico ed esistenziale.
Ho appena riletto ,tra l'altro,proprio la traduzione di "Lezioni sulla sintesi passiva"-egregiamente curata dagli allievi di Giovanni Piana,Costa e Spinicci- e ,da poco uscito per Mimesis, le (meno belle) "Lezioni sulla sintesi attiva",oltre ai Bernauer Manuskripte.. Trovo molto stimolante,invece,il saggio di Lohmar preposto al volume di Mimesis e conto di finire di leggere,dello studioso tedesco,la magistrale edizione dei  tardi Manoscritti husserliani del Gruppo C .Merleau-Ponty si è sino alla fine dei suoi giorni affaticato intorno alla problematica husserliana della temporalità -basti vedere la messe di rimandi in seno a "Il visibile e l'invisibile" alle lezioni del '28 edite da Heidegger,con quella sconvolgente intuizione -"per cui non si hanno nomi"!!!-del "flusso originario"... So che Lohmar sta anche pubblicando i Manoscritti degli anni Trenta del Gruppo D. Speriamo escano presto, li ritengo davvero fondamentali, confortato ,in questo, da un altro Autore da me riconsiderato,in termini di filologia husserliana, in questo ultimo periodo -vale a dire Derrida-,nel suo giovanile lavoro  sui problemi husserliani della costituzione, egregiamente curato da V.Costa.Ritengo che -e Derrida mi sembra essersene accorto precocemente- questi ultimi manoscritti (C e D,intendo) illuminerebbero in maniera sostanziale la fase di gestazione della Krisis,oltre a situarsi in sintonia con le lezioni del 20-21 sulla sintesi passiva.
Mi scuso ancora per questa singolare intrusione nel vostro tempo.