venerdì 21 dicembre 2012


Recensione di Martin Heidegger, Fenomenologia dell’intuizione e dell’espressione. Teoria della formazione del concetto filosofico (Quodlibet)

mercoledì, dicembre 19, 2012
By Giuliano Zingone (alias Spinoza) - pubblicata sul sito "Phenomenologylab"

a cura di Vincenzo Costa, traduzione di Armando Canzonieri, Macerata, Quodlibet, 2012, pp. 181, euro 24, ISBN 9788874624188

Il lettore italiano possiede indubbiamente una conoscenza indiretta dell’esistenza e dei contenuti salienti delle lezioni heideggeriane friburghesi del semestre estivo 1920 oggetto della recensione (pubblicate nella Martin-Heidegger-Gesamtausgabe, Bd. 59, V. Klostermann, 1993, a cura di C. Strube) grazie ai riferimenti presenti in un denso testo della maturità del filosofo di Meßkirch (“Da un colloquio nell’ascolto del Linguaggio”, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1990). Che Heidegger si decidesse a citare il corso a più di trent’anni di distanza ci assicura retrospettivamente del fatto che con questo ciclo di lezioni- il cui titolo, nella presente traduzione, viene reso correttamente a differenza del lacunoso e assai poco perspicuo Espressione e fenomeno impiegato nel testo sopra ricordato – l’immane sforzo dell’Autore di disarticolazione delle filosofie neo-kantiane del soggetto a lui coeve e all’interno delle quali si era formato – Scuola di Marburgo (Cohen, Natorp ecc.) e Scuola di Friburgo-Baden (Windelband, Rickert ecc.) – avesse raggiunto un punto di non ritorno nella sua operazione di destrutturazione della metafisica occidentale, già ampiamente preparato dai corsi del 1919 (tradotti in italiano nel volume Per la determinazione della filosofia, Guida, Napoli 1993). In questi snodi accademici cruciali, l’ambito della dimensione esperienziale del soggetto trascendentale, con la sua asfittica auto-referenzialità logicistica di derivazione fichtiana ed hegeliana, si rivela infatti al giovane docente inadeguato ad accogliere la portata rivoluzionaria della ‘costituzione’ del soggetto mondanamente centrato nella “vita effettiva”. Heidegger si era formato sì con Rickert e Lask ma già molto precocemente si era cimentato nel compito di trovare, con la dissertazione su Duns Scoto e la successiva lezione di abilitazione sul concetto di tempo, in una personalissima declinazione/riscrittura della rickertiana ‘filosofia dei valori’ ispirata alla diltheyana storicità piena e concretamente esistenziale dello spirito vivente, una via d’uscita trans-logica, metafisica alla staticità del soggetto meramente conoscente, astrattamente teoretico. Da qui, una decisa virata verso, appunto, la “vita effettiva” – faktischen Leben, nel 1919-20 ancora categoria della ‘vita’ ma che diventerà, dapprima, nel corso del 1923, Dasein (“Dasein (faktischen Leben) ist Sein in einer Welt”), successivamente, in quello marburghese dedicato alla Retorica aristotelica, Befindlichkeit, per giungere poi in “Sein und Zeit”, all’interno della definitiva configurazione dell’Esserci, a stabilizzarsi nella Befindlichkeit come ‘situazione emotiva’ e nella Faktizität (‘effettività’ nella traduzione di P. Chiodi) come struttura della Cura – organizzata nella triplicità di ‘mondo circostante’ (Umwelt), ‘mondo comune’ (Mitwelt) e ‘ipseità mondana’ (Selbstwelt). Tale costituzione è, nella sua ‘problematicità’, afferrabile solo in un risveglio dell’ “attenzione” costante all’esistere (pp. 36 e 86), in una “preoccupazione” (Sorge, p. 144 e, nella recensione, coeva, alla Psicologia delle visioni del mondo di K. Jaspers, Bekümmerung) vòlta a rendere insicura la ‘quotidianità’ di ogni singolo esserci; anche se il neo-kantismo si ostina a rimuovere tale carattere sconcertante nelle movenze ammalianti e tranquillizzanti della lotta per i ‘compiti culturali’ (p. 144) e per la strutturazione di un cosmo valoriale assoluto avulso dal ‘tormento cairologico’ della ‘vita’ (ma su quest’ultima dinamica sarebbe necessario approfondire il corso del semestre invernale 1921-22 sulle Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, Guida, Napoli 1990 che prelude alla rivalutazione della tensione messianica del cristianesimo delle origini avviata nel corso del 1920-21 sulla “Fenomenologia della coscienza religiosa”).
Significativamente (ibidem), Heidegger scrive: “Mondo circostante, mondo comune e ipseità mondana non costituiscono un’area dell’essere non determinata sotto qualche aspetto. Ogni realtà riceve il proprio senso originario dalla preoccupazione del sé. Le modalità dell’avere e del rimuovere il mondo circostante sono connesse con la modificazione della preoccupazione del sé. La preoccupazione del sé è una costante cura (Sorge) intorno allo scivolar via dall’origine”.
La categoria di “vita effettiva”, dunque, individua un originario fenomeno – l’esistenza del singolo esserci coinvolto nella contesa tra autenticità ed inautenticità – ed il suo pieno, fenomenologico senso di riferimento nella categoria della “significatività”, laddove con questo termine Heidegger intende – a dispetto del dualismo, patrocinato dal primato del teoretico, sintetizzabile a posteriori, di soggetto e oggetto tipico del neo-kantismo – il modo d’essere in cui, nell’ ‘attuazione’ (pp. 65 sgg.) della vita effettiva, l’esserci fa concretamente, originariamente esperienza del mondo. È doveroso, a questo punto, che si ricordi il concetto di “fare esperienza” come eundo assequi degli scritti heideggeriani degli anni Cinquanta, esemplare maturazione di quel concetto di Ereignis apparso per la prima volta, con la sua violenza primigenia annichilente l’ego cartesiano, nei corsi friburghesi del 1919, in cui la trascendenza dell’esserci scuote l’irrelata totalità ontica fino a spezzarla nella differenza ontologica e a ricomporla, appunto, nel mondo, quel mondo che, per la quotidianità reificata, ‘caduta’ (altro concetto chiave delle lezioni heideggeriane di quegli anni post-bellici) nel “logorarsi della significatività”, lungi dal riconoscerne l’ ‘essere’ nella “mondità” del ‘prendersi-cura-avente-cura’ è divenuto mero oggetto di interesse, occupazione esente da pena, semplice utilizzabile, datità la cui natura pre-teoretica, ‘ambientale’ rimane occlusa nella semplice-presenza dell’oggettualità teoretico-ideale (p. 37 e p. 153). Sempre per esplicita ammissione di Heidegger stesso, si veda a questo proposito la celebre nota a Essere e tempo (Utet, Torino 1978, p.145): “L’autore si permette di render noto che, sin dal corso semestrale invernale 1919-20, ha ripetutamente esposto, nelle sue lezioni accademiche, l’analisi del mondo ambiente e, in generale, l’ “ermeneutica dell’effettività” dell’Esserci” – già elaborato e presentato nel corso del 1919-20 sui Problemi fondamentali della fenomenologia.
Sì, perché, nelle lezioni del 1920 e dintorni, c’è una questione ancor più originaria,che aveva occupato Heidegger già nel quinquennio 1912-1917: lo statuto dell’ ‘oggetto’. Era inevitabile che la ‘riduzione’ husserliana, l’abbandono del naturalismo, la perdita del mondo – inteso come totalità ontica – per ritrovare il mondo come differenza ontologica, esigesse l’individuazione di una sfera trascendentale originaria, dove per ‘trascendentale’ Heidegger, sino alla fine degli anni Venti, intenderà il complesso delle condizioni di possibilità dell’oggettualità in quanto tale. Nella misura in cui l’oggettualità è l’esperienza che ‘si dà’ (es gibt), è ciò che ‘apre’, all’esserci, la possibilità di un’esperienza come Ereignis, come evento che si apre solo nella vita effettiva, nella situazione emotiva corroborata dalla comprensione e dal discorso e ciò solo in un’auto-manifestazione che si organizza autonomamente a livello strutturale e categoriale, emerge che tale rilevamento si rende possibile solo grazie a Dilthey e alle sue categorie interne alla vita; e a Husserl con la sua scoperta, nella sesta “Ricerca Logica”, dell’ ‘intuizione categoriale’ e dell’ “eccedenza” della categoria dell’oggettualità e dell’essere rispetto alla mera intuizione sensibile. Questa cruciale acquisizione Heidegger, nel 1919, la fonderà nel carattere di precedenza ontologica del ‘qualcosa vitale pre-mondano’ (la ‘vita’ è strutturata, il teoretico può avere una struttura non repressiva, la vita non è im-mediatezza categoriale,bensì concetto, ha proprie determinazioni categoriali) e, nel 1920, ossia nel testo in oggetto, gli permetterà di cimentarsi poi con Natorp circa la possibilità di una scienza originaria del pre-teoretico, laddove per Natorp scienza si può dare solo del teoretico, considerata l’inoggettivabilità dell’io. Che cos’è, allora, un oggetto ? Il correlato di una soggettività, ma non di una soggettività rappresentazionale, emozionale o volitiva ‘pura’ che, cartesianamente, dall’alto dell’indubitabilità della propria percezione immanente, si volge poi a costituire l’oggettività mercé quella “matematicità del metodo” così ben analizzata nel § 10 del corso del semestre estivo del 1933 e qui ampliata nel cap. 15, limitandosi a descrivere un cosmo di pure essenze ideali oggettivandole in ontologie regionali e a fare della soggettività storica concreta un mero esemplare rientrante in un “contesto di ordinamento” – su tale categoria, contrapposta al ‘contesto di attuazione’, si vedano le pp.124 sgg. e p.162 del testo – qual è, appunto, una qualsiasi ontologia regionale. L’ oggetto si rivela essere, invece, il correlato di un’intenzionalità intesa non come l’astratto rapporto dell’approccio teoretico soggetto-oggetto bensì come la vivente co-appartenenza, nel vissuto dell’attuosa esperienza ambientale, di “esperienza vivente” e di “qualcosa vitale pre-mondano”,cioè la significatività. L’oggetto è quindi originariamente “significativo”, è l’oggettualità, non l’oggettività determinata dalla soggettività trascendentale – si ricordi l’acquisizione dei corsi friburghesi dei primi anni Trenta: ‘filosofo’ è colui che libera lo sguardo per l’idea, per l’essere e per l’idea suprema, l’idea del Bene, la suprema potenza, superiore allo stesso essere in quanto concedente e accordante essere e verità. Filosofia o, meglio, filosofare non è, quindi, mero esangue sapere cattedratico, complesso definitorio, tecnica speculativa o visione del mondo ma lotta per l’esistenza spirituale di un popolo, quel conseguire la paideìa di cui parla Platone all’inizio del settimo libro della Repubblica.
Di quel fenomeno originario fondamentale – la “vita effettiva” – la fenomenologia, secondo Heidegger, è dunque la scienza in quanto “scienza originaria del pre-teoretico”, per riprendere la definizione presente in Per la determinazione della filosofia, dotata di un rigore tutto suo, il rigore delle ‘cose ultime’, che non è quello derivante dall’ “assicurazione” della Filosofia come scienza rigorosa di Husserl – cui però non va contrapposta la visione del mondo bensì la filosofia scientifica (pp. 15 sgg. e p. 142) – e, in quanto tale, mercé l’inesausto esercizio della “distruzione” (cap. 5 e Appendice, pp. 149 ss.), o “diiudicazione” (cap. 10), fenomenologica applicata ai reperti linguistico-proposizionali della quotidianità, autentica attuazione dell’ “atteggiamento fenomenologico fondamentale” (p. 36). Tale ‘atteggiamento’ è quindi da perseguirsi indefinitamente attraverso gradi sempre più originari di ‘indicazione formale’ (p. 74 e altri luoghi ma, per una piena intelligibilità, si veda “Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele”, cit., pp. 67 ss.), di approssimazioni orientate (p. 36) sempre più vicine all’origine nella forma dell’ ‘interrogazione infinita’ con l’obiettivo di destituire di credibilità la presunta auto-sussistenza, l’autonomizzazione dell’asserzione (in questo testo intesa come “espressione”) dal nesso ‘comprensione/interpretazione’ (vedi anche i §§ 33 e 44 di Sein und Zeit) al fine di giungere alle “cose stesse”. E quelle “cose stesse” si riveleranno essere allora, come volevasi dimostrare, l’”intuizione” vivente del proprio esserci effettivo, la comprensione originaria, l’ “intuizione ermeneutica” del radicamento dell’apparato espressivo nella concretezza fattizia della dialettica esistenziale cosicché risulti chiaro che ogni ‘espressione’ esibisce sempre e necessariamente una pre-delineazione, una preliminare articolazione del senso nascente da una pre-concezione (Vorgriff), da una cornice ‘progettuale’, a partire dalla quale l’esserci organizza il proprio mondo, originata da una “situazione” (pp. 34-35) esistenziale ben definita, di accettazione della vita fattizia e della preoccupazione del sé oppure di rimozione/nascondimento della stessa dietro il velo della teoria degli “oggetti culturali”, nella teoria dei “compiti della cultura” come “atteggiamento” (Einstellung, pp.119 ss.) idolatrico nei confronti delle forme oggettivate, ‘cadute’ dell’attuosità vivente dello spirito nelle datità non-originarie del mondo circostante e del mondo comune. È infatti solo analizzando i sei campi semantici del termine ‘storia’ (capp. 6 ss.) – (1) storia come scienza, come obiettivazione teoretica; 2) storia come totalità ideale del passato, come oggettualità solamente pensata; 3) storia come tradizione, ossia come apparato di significatività proprie del mondo circostante e del mondo comune; 4) storia come ammaestramento di vita o di politica; 5) storia come passato concretamente esistenziale di un individuo; 6) storia come accadere evenemenziale della vita effettiva) – che Heidegger avverte che esclusivamente il quinto, oltre ad esprimere un carattere di pre-delineazione congruo con gli imperativi di questa ‘analitica esistenziale’ ‘in fieri’ (cap. 5), è in grado di rispettare, almeno parzialmente, il criterio di ‘originarietà dell’attuazione’. E ciò avviene solo nella misura in cui è storicamente rilevante solo ciò che il singolo esserci attua, ogni volta rinnovandosi,sotto l’imperativo dell’ipseità mondana (cap.10), nella misura in cui l’importo esistenziale effettivo è presente come passato di una persona che viene conservato e mantenuto nella vivente irrorazione del presente tornando con ciò a reintegrarsi nell’attuosità della dinamica esistenziale intesa come ‘senso concreto dell’attuazione storica’ prefigurante il dinamismo della triplicità ‘estatica’ di Sein und Zeit, come unità di passato, presente e futuro nella vicenda esistenziale del singolo esserci all’interno del ‘progetto’ del “mondo”, movimento splendidamente prefigurato nella recensione, coeva alle lezioni del 1920, alla Psicologia delle visioni del mondo di K. Jaspers (ora in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 457-463). È infatti solo considerando sotto la vivente conduzione attuativa della “distruzione fenomenologica” i reperti linguistici della principale espressione della sterilizzazione dell’ ‘oggetto storia’ nel campo dell’interesse filosofico, vale a dire la filosofia dei valori, che possiamo renderci conto di come i singoli eventi perdano ‘effettività’ e ‘significatività’ per scadere a pretesti per il reperimento in essi stessi di tracce di questa epifania dell’ideale, sprovvisti di una propria identità ed intelligibilità, bisognosi di assumere certificati d’identità dai valori. I singoli eventi psicologici e storici – in Rickert, solo quelli storici – materializzano, infatti, i valori sotto forma di ‘oggetti culturali’. Ma anche qui la singolarità dell’evento storico, in conformità al carattere idiografico, individualizzante proprio delle scienze dello spirito secondo Windelband, è meramente, per Heidegger, il luogo della manifestazione di un ordine sovra-temporale (anche Simmel e Scheler rientrano nella critica!), dove l’apparizione dei valori del dover-essere imprime una torsione verso l’alto al divenire biologico consentendo l’emergenza di valori strutturanti una presunta amorfa irrelatezza empirica. Quest’ultima, a sua volta, dovrebbe sostenere oggettualità ideali in grado di strutturare a priori la vita secondo un ordine del “dover-essere” affondante le proprie radici nel primato fichtiano-lotzeano della ragion pratica e nella distinzione brentaniana, ripresa e sviluppata da Windelband e dallo stesso Rickert nella terza edizione de L’oggetto della conoscenza, della distinzione di ‘giudizio’ e ‘valutazione’, ipostatizzando un ordine valoriale – logico, etico, estetico ecc. – sovra-storico in grado di informare platonicamente quella che, a torto, si considera come l’irrelata molteplicità empirica fluente (pp. 27-29) e che è, invece, concreta “vita effettiva” nella drammaticità della propria dialettica esistenziale.
Si tratta, cioè, in sostanza, nel 1920, per Heidegger, di distruggere le contemporanee espressioni supreme della filosofia della vita non per restare all’interno dell’orizzonte della stessa ma per rifondarla superandola hegelianamente. Da una parte, la componente rappresentata dalle scuole di Marburgo e Friburgo con la significativa aggiunta – a differenza del 1919! – di Simmel e Husserl, interessata a stabilire un piano meta-storico di riferimento anti-storicistico alla filosofia dei valori. Dall’altra parte, la componente più attenta alle dinamiche della vita psicologica ma ugualmente tesa a togliere centralità alla vita effettiva del singolo esserci ipostatizzando al suo posto una soggettività assoluta che, mercé il metodo della “ricostruzione”, recuperi hegelianamente all’attuosità del soggetto le proprie oggettivazioni concludendo da ultimo il proprio itinerario fenomenologico in un’astratta soggettività assoluta che, quale mera correlatività, ponga se stessa ed il mondo (Natorp), oppure, nel caso di Dilthey, pur intravedendo quest’ultimo il punto di partenza nell’auto-strutturazione della ‘vita’, introducendo dei meccanismi di assicurazione e di stabilizzazione in grado di tutelare l’individuo dall’incertezza. ma recuperando, al contempo, il momento regressivo della ‘costituzione’ (pp. 138, 141, 164-5). La ‘vita’, infatti, per Dilthey – intesa come tensione pulsionale ed emozionale nei confronti del milieu che fornisce stimoli e riceve modificazioni volitive guidate dal valore e dallo scopo-, mette in funzione operazioni logico-formali, ancorché inconsciamente e tacitamente, di unificazione, collegamento e generalizzazione subordinate al supremo meccanismo regolatore/selettore della vita psichica che è la “connessione acquisita”, dispositivo che consente la stabilizzazione della vita e la sua prevalenza sull’ambiente, soprattutto come ‘spirito oggettivo’, come generalizzazione d’esperienza, secondo Heidegger però estraniante e reificante, in grado di superare quell’ “accorgersi oscuro e violento”, quel tormento dell’ ‘attesa’ che lo stesso Dilthey, nei Contributi allo studio dell’individualità, credeva di aver definitivamente esorcizzato e superato.

Indice
Introduzione – Lo stato del problema della filosofia
Prima parte – Per la distruzione del problema dell’a priori
Seconda parte – Sulla distruzione del problema del vissuto
Prima sezione – La trattazione distruttiva della posizione di Natorp
Seconda sezione – La considerazione distrutiva della posizione di Dilthey
Appendici
Nota del curatore dell’edizione tedesca
Postfazione del curatore dell’edizione italiana
Glossario


(per gentile concessione del sito “Recensioni Filosofiche”)

 

sabato 12 maggio 2012

Recensione a: "Che cos'è la verità?" di Martin Heidegger, Marinotti 2011



 
 
 
Heidegger, Martin, Che cos'è la verità?
(Edizione italiana a cura di Carlo Götz), Milano, Christian Marinotti Edizioni, 2011, pp. 331, euro 30, ISBN 978-88-8273-124-3
 
 
Recensione di Giuliano Zingone - 27/02/2012
 
Il libro che qui presentiamo raccoglie i corsi universitari tenuti da Heidegger nel 1933 (Die Grundfrage der Philosophie) e nel 1933-1934 (Vom Wesen der Wahrheit), vale a dire contestualmente al periodo in cui il filosofo ricoprì la carica di rettore dell'Università di Friburgo.
Pubblicati nella Gesamtausgabe (vol. 36/37) con il titolo Sein und Wahrheit, entrambi i testi si caratterizzano, da una parte, per lo stile estremamente contratto, quasi stenografico, di appunti - tratto sicuramente dovuto all'eccezionale carico di lavoro che Heidegger
dovette sopportare a causa del suo nuovo impegno accademico e che non gli permise un'adeguata elaborazione organica del materiale qui presentato-, dall'altra, per i numerosi inserti polemici legati all'attualità politica. In tal senso, ad esempio per il corso del 1933/1934 che gli editori tedeschi ci propongono attraverso la pubblicazione degli appunti di uno degli uditori heideggeriani, W. Hallwachs - intitolato, come quello del 1931/1932, Vom Wesen der Wahrheit. Quest'ultimo, tradotto in italiano da Franco Volpi per Adelphi con il titolo L'essenza della verità-, andrebbe tenuto costantemente presente per una piena intelligibilità del successivo.
L'idea della filosofia, che Heidegger sviluppa nei primissimi anni Trenta e che culmina nei due corsi universitari qui tradotti, oltre a costituire, da una parte, il coronamento della ricerca -- già ampiamente approfondita con il riconoscimento della centralità della triplicità estatico-orizzontale della 'temporalità dell'essere'(Temporalität) rispetto alla 'temporalità dell'esser-ci' (Zeitlichkeit) affermata nel corso marburghese I problemi fondamentali della fenomenologia (1927) - avviata con Essere e tempo sul 'senso dell'essere' e perfezionatasi nel frattempo nella questione della 'verità dell'essere' grazie allo scritto Dell'essenza della verità (1930, specialmente nel passaggio dal § 5 al § 6 (incluso) dello stesso, dove Heidegger retrospettivamente individuerà il primo 'balzo' nella Kehre, nell' Ereignis, introducente la categoria strategica di mistero quale "autentica non-essenza della verità"), rappresenta un'incendiaria dichiarazione di guerra, dai toni marcatamente nietzscheani, nei confronti di un esangue sapere cattedratico e di una nozione di lotta politico/spirituale - come nel caso dell'allocuzione di Kolbenheyer ferocemente stigmatizzata da Heidegger durante il corso - che ha abbandonato il proprio radicamento nella vita e nella lotta di quel popolo che dell'originaria interrogazione greca sull'essere deve essere il rinnovatore, pena la propria definitiva disgregazione e l'emarginazione definitiva della questione della metafisica. Il popolo tedesco, sì caldamente invocato in queste pagine, deve poter tornare, per Heidegger, proprio per la sua organica cooriginarietà linguistica e concettuale con il passato greco - quel passato mai realmente passato che torna costantemente a colpire l'uomo, con la potenza e la violenza di un'intimazione primigenia, nel momento in cui quest'ultimo viene messo di fronte alla scelta dell'esistenza autentica -, ad ascoltare la lontana ingiunzione dell' Inizio, la fondante voce dell'Essere palesatasi originariamente presso i Greci e presto spentasi sotto l'incalzare di una nuova concezione della verità fondata sul primato della 'dottrina delle idee' e del soggetto logocentrico.
Ed effettivamente, il termine ricorrente, strategico, in entrambi i corsi è : 'lotta' (Auseinandersetzung), qui tradotto con "diremzione scismatica", come conflitto radicale e senza quartiere che segue ad una preliminare "decisione scismatica" (Entscheidung) pro o contro una determinata concezione dell'essere e della verità.
Nel primo corso, infatti - vòlto ad una pugnace disamina di Hegel quale culmine della metafisica occidentale (più tardi questo ruolo sarà di Nietzsche) già ampiamente analizzato da Heidegger in molteplici occasioni a partire da Essere e tempo fino al corso del 1930/31 sulla Fenomenologia dello spirito - sono prese in considerazione le due componenti fondamentali - cristianesimo e matematicità - che presiedono, appunto, all'affermazione della metafisica e che, proprio per ciò, vanno destituite di fondamento mediante una rigorosa lotta culturale.
Platone con la sua dottrina meta-sensibile delle idee - che costituirà più tardi il paradigma cristiano della svalutazione del mondo -, Cartesio (e la sua filiazione leibniziano-wollfiano-baumgarteniana guidata dal principio logicistico dell'essere come possibile, della quidditas come pensabile non-contraddittorio) con il primato 'matematico' della consapevolezza, del sapere di un ego puntuale ed auto-referenziale scisso dal contatto fondante con l'esperienza, aprono la strada alla loro sintesi nel pensiero, appunto, dello Hegel della Scienza della Logica, fondato sullo Spirito assoluto che riassorbe, neutralizzandone la natura oggettiva di potenze, gli antagonismi e la lotta nella propria identità totalistica dopo averli attraversati.
Così, il carattere effettivo, inaggirabile, inscritto nella natura stessa delle cose, del contrasto quale suprema legge d'essere è destinato progressivamente ad estenuarsi nel mero contrasto concettuale e, da ultimo, nell'annullamento stesso dell'antagonismo e nel primato di un'ovvietà non problematica veicolata dalla concezione della 'verità come correttezza' contrapposta alla 'verità come disascosità' (alétheia, s-velatezza,s-velatività). La prima è stata sempre spacciata - a partire da Platone e, per certi versi, Aristotele - per quella originaria, sicché abbiamo, da una parte, un soggetto che determina, attraverso le categorie della metafisica occidentale operanti nel luogo deputato all'accertamento della verità, vale a dire la proposizione, i caratteri e la natura dell'oggetto. La seconda, dopo l'affioramento nel pensiero dei presocratici - in particolare, in Eraclito e Parmenide - come physis (aprente potenza originaria, spalancarsi primigenio di un ambito, 'schiudentesi imporsi' tendente alla stabilità ed alla presenza come consistenza nei limiti delle possibilità essenzialmente proprie di ciascun essente,'caos' in senso esiodeo), quindi, come dis-ascosità, è stata occultata pur essendo la nozione originaria di verità, cosicché l'uomo greco progressivamente perde di vista la consapevolezza, propria di un Eschilo o di un Sofocle, che a dominare la realtà non è l'individuo - categorie come questa, così come quella di 'libera personalità', dice Heidegger, sono estranee alla mentalità greca - bensì la Potenza del 'predominante', della physis.
Ed è proprio la physis, questa originaria potenza, costituente e disponente, che giunge addirittura a scindersi, quindi a lottare con se stessa, a porre la lotta addirittura nel proprio cuore per poter arrivare a comunicare, come destino, con l'uomo ingiungendogli di collaborare all'allestimento di un mondo inteso come 'dimora dell'Essere', ad avere la centralità nella serrata analisi del frammento 53 di Eraclito - quello sul pòlemos come 'padre' e 'dominatore' di tutte le cose - che occupa la parte iniziale del corso del 1933/34 e che lo differenzia costitutivamente dall'omologo del 1931/32, vòlto esclusivamente all'analisi della platonica 'allegoria della caverna'.
La physis - cui l'uso linguistico e concettuale post-aristotelico, a partire dalla romanitas fino alle articolate elaborazioni giudaico-cristiane del Medioevo, ha sovrapposto i caratteri della mera 'natura' fisica, impoverendone fatalmente l'inaggirabile spessore ontologico-fondamentale - è, essenzialmente, in questa serrata analisi heideggeriana, accadimento della disascosità, come edèixe ('mostrare') e come èpoìese ('ad-fermare' consolidante come ulteriore determinatezza dello 'stagliare' come 'messa-in-opera-di-un-mondo'), auto-istituzione della potenza originariamente generante come 'dimensione' intrascendibile della possibilità stessa della manifestazione di qualsivoglia fenomeno, di qualsivoglia essente, sia esso assente o presente, così come - a maggior ragione- della traduzione linguistica dei fenomeni nelle proposizioni - veri e propri prodotti 'derivati' (si veda il § 33 di Essere e tempo) dell' interpretazione quale originario raccoglimento silente nella strapotente corrente d'essere che, come 'lingua madre' (§ 5), come lògos (inteso come 'posare-portar fuori-raccogliente per custodire l'aperto così inaugurato come unità dei reciprocamente contrastanti' nel senso di Introduzione alla metafisica) si pone , ma solo come docile presagio, nei dintorni del soffio vivificante ed aprente della sovrumana quiete del 'Niente nientificante', all'ombra della 'voce afona dell'essere' quale scaturigine 'donante' del senso, quale senso che si dà, quale Er-eignis.
Se volessimo usare ancora il linguaggio di Introduzione alla metafisica (1935), questa Potenza originaria sarebbe il tò deinòn che - come dìke, come giustizia, ordine (còsmos), originaria articolazione di un destino che si fa mondo istituendo la polarità oppositiva delle regioni dei divini e dei mortali, del cielo e della terra - soggioga e guida il tò deinòtaton, il 'più inquietante', cioé l'uomo, espropriandolo della sua pretesa autosufficienza e trasformandolo nell'instancabile 'guardiano' del consolidamento del mondo così dischiuso in un mondo dello spirito mercè la téchne, che altro non é che il perfezionamento creativo di quell'essenza della cosa - l'idea, l'essere - che previamente ci investe ogniqualvolta ap-prendiamo qualcosa in un anticipante 'scorgere' (er-blicken).
Il termine greco téchne, infatti, non è assimilabile alla nostra parola 'tecnica' né esprime un'idea di sapere come conoscenza meramente teorica, bensì significa l' 'intendersene di qualcosa', la conclamata capacità di mettere-in-opera l'attitudine di una cosa a realizzarsi seguendone l'idea , la preliminare configurazione della sua essenza, della sua 'possibilità' oggettiva. In questo senso, la téchne implica un profondo riguardo verso la natura specifica della cosa affrontata, tant'è che i Greci usano anche la locuzione téchne epimèleia per indicare l'accorto 'prendersi cura' (M. Heidegger, Nietzsche, Milano 1995, p.166).
La filosofia diventa così eminente lotta per la vita o per la morte spirituale, se è vero che lo spirito - lungi dal potersi caratterizzare come intelligenza tecnica subalterna alla manipolazione tecnocentrica e/o statocentrica o come mero acume, secondo le profetiche parole del discorso di Rettorato - e non potendo mai essere dato come qualcosa di definito una volta per tutte (come accade invece per l'animale) è solo e soltanto quell'incoercibile volontà di suscitare un mondo sulla base dei suggerimenti dell'essere, sulla base di una fondante 'apertura' alle potenze originarie dell'esistenza ed adempie questo compito esclusivamente ingaggiando un inesausto combattimento con la velatezza nella duplicità delle sue articolazioni, sia essa la velatezza sovrana e mai trascendibile della physis adombrata da Eraclito nel fr. 123 (Physis kryptesthai philei), sia essa la velatezza intesa come quell' 'apparenza' (Schein) - connaturata all'insorgere della verità come 'apparire' (Erscheinung), come venire alla presenza uscendo dal velamento, che Heidegger individua come l'autentico senso greco della verità - che Parmenide, nel suo poema filosofico, invita a tenere costantemente presente, insieme con la minaccia del nulla, come la via dell'errore cui il filosofo è costantemente esposto nel corso della sua lotta. Così la verità, come tensione all'acquisizione di un mondo inteso come stabile permanere in sé di una struttura, come messa-in-opera, dettata dall'essere, di qualcosa nella totalità delle sue determinazioni essenziali, ossia delle sue possibilità autentiche, è essenzialmente conquista e lotta dell'uomo contro la non-verità, contro l'incombente e mai trascendibile minaccia dell'occultamento.
Il culmine di questa lotta - e con ciò entriamo nel cuore del corso del 1933/34, anche se già da tempo, con la nostra analisi, stiamo operando nell'ambito delle problematiche fondamentali dello stesso - viene raggiunto da Platone nella celebre 'allegoria della caverna' contenuta nel Libro VII della Repubblica (514 a - 517 a 6): in essa, attraverso quattro stadi, ha luogo il tormentato processo di elevazione di un prigioniero - simbolo dell'uomo deietto della quotidianità media - dall'originaria condizione di dipendenza dalle ombre nella caverna alla contemplazione delle idee quale luogo dell'essere sino all'intellezione finale dell'idea suprema, l'idea del bene (Rep., VI, 506-511 e VII, 517 a-c), eco dell'antica potenza generante della physis ma ancora suprema potenza s-velante, concedente/accordante verità ed essere, anticipazione della Lichtung (' radura', 'contrada').
Pur avendo sempre a che fare con svelatezze parziali - anche l'ombra è pur sempre qualcosa di svelato, qualcosa che si mostra ma non come dovrebbe, proprio in virtù della dialettica oggettiva di quella dòxa che, lungi dal significare mera 'opinione', ospita invece - nella successiva e conclusiva analisi heideggeriana del Teeteto -, come fenomeno dell' Ansicht ('veduta'), la complessa e parmenicida dinamica di ri-conoscimento/mis-conoscimento, di presentazione/ri-presentazione immanente all'apparente enigma, generato dall'essere stesso nello scontro delle sue componenti oggettive e soggettive, della 'biforcazione' conseguente al fenomeno della pseudés dòxa - il prigioniero, lungo il suo itinerario di emancipazione, si rende conto solo a partire dal terzo stadio che il supremo dolore derivante dalla lancinante sofferenza per l'incontro con la luce del sole altro non è che il prezzo da pagare per la visione delle idee, che nell'allegoria è rappresentata dalla potenza illuminante e disvelante della luce, metafora della conoscenza autentica del vero essere delle cose attingibile solo da parte di un preventivo 'apprendere' (come Ver-nehmen e Vor-nehmen, come accoglimento ed elaborazione progettuale) quello 'sguardo' che preliminarmente l'Essere ci rivolge e al quale dobbiamo conformarci attraverso un ri-orientamento radicale della nostra esistenza in direzione delle nostre più proprie possibilità - paideìa (Rep., 514 a 1 sgg.) intesa come 'cura' (Sorge, epiméleia) del Sé in senso foucaultiano e quindi antagonisticamente a qualsivoglia torsione teoreticistica -, acquisizione che poi deve necessariamente spingere colui che si è liberato a tornare, da liberatore e nel rischio della morte, nelle profondità della caverna per ottenere, di nuovo, quell' 'esperienza fondamentale' (eundo assequi), evocata poi nella Lettera VII (340b-344e), dell'accadere della disascosità nel genuino dialogo filosofico, nella genuina interrogazione che sarà poi attivata nel Teeteto - luogo della giustificazione del non-essere e della sua cooriginarietà antagonistica con l'essere - con coloro che vogliono 'udire' (Er-hören) e 'scorgere' (Er-blicken) autenticamente.
 
 
 
Indice
 
Nota all'edizione italiana
 
Semestre estivo 1933
 
Avviamento: L'interroganza di fondo della filosofia e il fondale generarsi della nostra genitura
 
Parte principale: Interroganza di fondo e metafisica. Preparazione di una diremzione della posizione di Hegel
 
Capitolo primo: Configurazione, trasformazione i improntamento in senso cristiano della metafisica tramandata
 
Capitolo secondo: Il sistema della metafisica del tempo nuovo e la prima delle sue <due> principali determinazioni di fondo: la matematicità
 
Capitolo terzo: Determinazione cristiana e pensiero metodico-matematico della fondazione nei sistemi metafisici del tempo nuovo
 
Capitolo quarto: Hegel. Il compimento della metafisica in quanto teo-logica
 
Conclusione
 
Semestre invernale 1933/34
 
Avviamento: Capziosità e inaggirabilità dell'interroganza di stanziazione
 
Parte prima: Verità e libertà.Un'interpretazione dell'allegoria della caverna nella "Repubblica" di Platone
 
Capitolo primo: I quattro stadi del generarsi della verità
 
Capitolo secondo: L'idea del bene e la disascosità
 
Capitolo terzo: L'interoganza dello stanziarsi della disverità
 
Parte seconda: Un'interpretazione del "Teeteto" di Platone in vista dell'interroganza dello stanziarsi della disverità
 
Capitolo primo: Considerazioni preliminari sul concetto greco di conoscenza
 
Capitolo secondo: Le risposte di Teeteto all'interroganza dello stanziarsi del sapere e la refutazione di queste risposte
 
Capitolo terzo: L'interroganza dell'attendibilità della pseudés dòxa
 
Appendice I: Appunti e schizzi per le lezioni del semestre estivo 1933
 
Appendice II: Appunti e schizzi per le lezioni del semestre invernale 1933/34
 
Postfazione del curatore dell'edizione tedesca

(Fonte: "ReF - Recensioni Filosofiche / ISSN 1826-4654")